LA GRANDE BELLEZZA ESISTE

Dedicato a chi crede che la vita sia lo scontro di due tifoserie a prescindere. E a Nino.

Era qualche anno fa, al tramonto. Noi tre seduti su una panchina. Bacoli è un luogo di strazianti bellezze che conserva nelle persone e nelle cose la dagherrotipia della Napoli d’un tempo. Cercavamo tabacco, come al solito. Mia figlia fermò un passante: “scusi, dov’è il tabaccaio?” L’uomo era vestito di grigio, con il fazzolettino nella tasca, la camicia bianca aperta, senza cravatta.

“Cercate le sigarette?” A Napoli suole rispondere ad una domanda con un’altra domanda. Gli occhi azzurri s’incresparono in sorriso coffeatore “Non ce ne sono. Il tabaccaio è chiuso.Non potete fumare.” Si accomodò pure lui. “E come fate adesso?”

“Eh, beh….”

“No, perché pure io ho finito le sigarette. E devo fumare. Sapete che facciamo? Venite con me”. Andammo. Salimmo al trotto il Corso rincorrendo il crepuscolo mentre lui ci domandava che diavolo facevamo laggiù, come se un viaggiatore o un turista da quelle parti fossero soggetti sconosciuti. “Ah! Un’archeologa! E ti pagano, a Cuma? Non ti pagano, eh, lo so. Lavori per la gloria? Te piace perdere o tiempe…”

Ci infilammo nel bar e tutti lo salutarono. “Sono con degli amici, venuti nientemeno che… dalla Francia. Hanno finito le sigarette, ma prima, facci il caffè, perché senza caffè, la sigaretta poi non c’azzecca.” Si faceva tardi.

“Domani verso le tre, vi aspetto all’angolo. Vi porto a vedere una cosa. Ma non vi dico cosa, fidatevi. Però con la macchina vostra, la mia non cammina.” Non ci fidavamo affatto. Dalle nostre parti non si accettano caramelle dagli sconosciuti, ma siccome tutti ci dicono che siamo incoscienti, a furia di sentirlo ci siamo convinti che è vero. Dunque, andammo. Si sedette a davanti. “Prendi l’autostrada”. Intimò. La Campania, tutta dorata quel giorno entrava dai finestrini sfrontata e avvenente, e sembrava davvero felice. Ci vennero incontro gli aranceti, le chiome dei pini, le case, vecchie, poche di quell’irripetibile rosso slavato, le nuove, tante accatastate come casse di bibite e poi il Vesuvio. Ci avrebbe intimato di uscire dall’automobile e ci avrebbe lasciati in un angolo sperduto, a piedi?L’ipotesi era verosimile, eppure non ci spaventava, semmai ci divertiva: eravamo come sulle montagne russe, pronti alla discesa fatidica ed eccitatissimi. “Pazzi e creaturi, Dio l’aiuta”.

Il Santuario di Pompei è una piccola città nella città: strade perpendicolari, edifici nitidi con tante finestre, ordine, silenzio. Il tutto rigorosamente chiuso da un cancello munito di cancelliere. L’uomo fece un cenno e i battenti si schiusero. Arrivammo sotto il campanile. “Qua non si entra, è pure tardi, mica sto ai vostri comodi”; un omaccio sgraziato ci sbarrò il passaggio.

“Voi aspettate qui”. Ci ordinò il nostro Virgilio, infilandosi nella portineria del santuario. Pochi secondi ed uscì, facendoci senno di seguirlo. Pompei è un posto da miracoli e redenzioni: l’omaccio biascicò delle scuse, consegnò la chiave e sparì. L’ascensore ci sputò fuori, sulla terrazza, intorno alle campane.

“Ecco”. Sotto di noi, la città antica, dorata anch’essa. Pareva viva assai più della nuova con le sue case, i suoi templi, il teatro. Il silenzio era soltanto la lontananza, invenzione di un tempo che non le apparteneva e che era, esso stesso, un’invenzione. Pompei era lì, a raccontare di giorni operosi, di voluttà, d’incanto… “Quisquis amat, valeat, pereat qui nescit amare; bis tanto pereat quisquis amare necat”. Il sole abbassandosi illuminava ogni insula, sapiente regista d’una rappresentazione unica, senza repliche. Quattro spettatori muti, con gli occhi bagnati. E la campana, che pure taceva perché c’è un tempo per ogni cosa.

La grande bellezza esiste, ma bisogna cercarla. Ogni particola del creato, e del nostro suolo natio, possiede un’ombra dalla quale non può separarsi. Se perdiamo l’incanto ci facciamo ciechi e tutto s’immerge nello stesso buio che è pure astio, rancore, disfattismo, entropia. Restano solo le ombre, che sono nulla anch’esse, senza la luce. Un passante, una voce lontana, un film possono accendere l’interruttore, svelare la luce, ma i nostri occhi sono avvezzi all’ombra e ne restano abbagliati, troppo ignavi perfino per sbattere le palpebre. Ed è così che il libro di ciascuno di noi, si infarcisce ogni giorno di luoghi comuni che offuscano il pensiero ai quali deleghiamo le nostre risposte, i nostri gusti, perfino le nostre passioni.

Abbiamo scacciato la poesia. Orpelli e feticci d’ogni sorta vigilano a che nessuno possa scorgerla tra le sbarre della sua prigione di consigli degli acquisti d’ogni sorta. Non solo: se essa ci chiama, ci voltiamo dall’altra parte, perché è più divertente drogarsi di bisticci vuoti, di pretesti e proclami che piangere di commozione vera.

Poi ogni tanto un uomo, un Italiano ne parla. E stupisce il mondo. Fosse soltanto per questo, meriterebbe l’applauso di noi tutti, se ci ricordassimo qualche volta almeno, di essere “noi” e di essere “tutti”.


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