SEPOLCRI E LUMINI

La sua memoria è dappertutto. Sui muri delle chiese e delle scuole, sulle cime dei campanili, dei tabernacoli e dei monti, a capo dei letti e sopra le tombe, milioni di croci rammentano la morte del Crocefisso.Giovanni Papini

Prima c’era “lo struscio”, il giovedi Santo. I Napoletani, ben vestiti a lutto, affollavano le strade del centro per render visita nelle chiese, al Cristo morto. Le nonne col velo di pizzo ci tenevano per mano, stretti, per non perderci nella calca. Noi compunti e inebriati da quell’aria di morte e resurrezione che respiravamo senza troppo capire, e che ci faceva sentire attori principianti di un’occasione misteriosa e solenne, se eravamo “bravi bambini” talora ci affidavano il piccolo tesoro dei semi germogliati al buio per portarli a Gesù.

Nella penombra delle chiese barocche di Napoli il broccato nero, con le trine dorate, ammantava i volti pensosi dei santi e l’altar maggiore. Buio e silenzio, tempo sospeso. Avanzavamo a passi cauti, per non far rumore con le suole nuove sulle pietre antiche verso il sepolcro. Gesù era morto, o forse dormiva, stordito dall’odore di cera e d’incenso, né sembravano turbare il suo sonno le mille lucine calde delle candele, nel freddo. Il grano pallido, come il suo volto e qualche fiore rosso, come il sangue delle ferite. Una paternoster, uno pensiero al giacente depositario di ogni salvezza umana, e ci avviavamo, verso un’altra chiesa.

Giorni della Passione. Le piazze traboccanti di lumini, fiori, sangue. C’è morte, ma resurrezione non c’è. Li chiamano “martiri”, ma i martiri sono i nostri fratelli immolati sull’altare di un idolo violento che dicono grande, e invece manifesta solo la piccolezza di una violenza bugiarda e vigliacca. Ci parlano di “integrazione”, ma integrare vuol dire rendere completo, conforme a giustizia. E non c’è giustizia nel gaglioffo che colpisce alle spalle, senza guardarti in faccia, senza ascoltare la tua voce. L’altro, loro non sanno chi è, e non se ne curano.

Troppo chiasso intorno a questo sangue, e troppe parole alla moda, prive di senso, mentre i mercanti continuano a banchettare nel tempio e la quaresima si spegne, tra un tonfo della borsa e una coda in automobile.

Le guerre si combattono per difendere qualcosa: che sia un popolo, una terra o una fede. Radici di quella pianta che si dice civiltà; ed è l’amore per ciò che fummo, e che siamo che ci suggerisce la strategia giusta. Se non c’è amore, la guerra è perduta in partenza e noi l’abbiamo forse scordato, anche se restano impolverate, in qualcuna delle nostre famiglie, le edicole dei santini – dove i nostri nonni s’inginocchiavano – e le foto degli avi caduti per la Patria. L’idolatria del pensiero unico ha abolito il peccato, come se il male non esistesse e non esistesse il bene. Sembrerebbe che i colpevoli sono sempre gli altri perchè tanto, in un calderone di numeri, di indistinti, mai di persone dotate di coscienza e senno, il principio di responsabilità è faccenda dimenticata, come tante altre che ci rendevano “persone”.

Le piazze di oggi e i sepolcri di allora: è il segno dei tempi. Loro ci chiedono moschee e noi mettiamo i lumini in piazza, lasciando deserte le chiese, nei giorni della Passione, come se non avessimo, noi, un Dio misericordioso a cui chiedere conforto nello strazio, e consiglio nel cammino. Ed anche noi, Italiani, pian piano scivoliamo in questa orribile mutazione genetica, dando per scontato di essere un popolo di santi e di poeti, non coltiviamo più né poesia né virtù. Ed il nemico avanza, profittando dell’oscurità dell’Occidente, che non sa guardarsi dentro e riconoscersi. Per risorgere, e dare un senso a tanto sangue innocente versato, occorre costringersi a pensare. “Fatevi il segno della croce”, ha detto Sgarbi, instancabile crociato della bellezza e delle radici della nostra civiltà. Dovremmo ascoltarlo. Buona Pasqua.

Angela Piscitelli
Zona di frontiera, 26 Marzo 2016


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