Perché le riforme – Tutti riconoscono che il nostro sistema non è più idoneo a regolare la collettività stanti i profondi cambiamenti intervenuti dal 1948 ad oggi: siamo passati da una società prevalentemente agricola ed artigiana ad una società avanzata, industriale e di servizi (il c.d. Terziario); inoltre sono venute meno le preoccupazioni di rigurgito autoritario che avevano condizionato i Costituenti.
Quali postulati culturali – La riforma ha però ad oggetto solo l’ordinamento giuridico della Repubblica (ce la chiede l’Europa!, la vogliono gli italiani!, così vanno dicendo gli improvvisati e interessati riformatori); devesi intanto rilevare che sono assenti nel relativo dibattito pubblico i postulati culturali della riforma: il cambiamento deve tendere a realizzare la società socialista (quella cui pensano i comunisti)? oppure deve avvicinare l’Italia ai Paesi di stampo liberaldemocratico?
Tale dilemma non è esplicito, ma emerge chiaramente dalla storia, dalle ideologie e dai programmi delle forze politiche, che la sinistra resta tuttora marcatamente statalista (basti dire del pesante sistema fiscale, che sta proletarizzando la classe media), mentre la destra propone uno Stato leggero e vagheggia una società liberale che però è molto di là da venire. In tutti mancano i principi fondamentali del moderno costituzionalismo occidentale: è assente il principio della equilibrata divisione del potere dello Stato (e reciproco condizionamento dei poteri separati) e – soprattutto – latita il principio di responsabilità.
Montesquieu, ammoniva: si sa per antica esperienza che chiunque abbia un potere è portato ad abusarne, onde è necessario organizzare le cose in modo che il “potere arresti il potere” (teoria dei “pesi e contrappesi”). Qualche millennio prima Eschine, politico ed oratore greco, avversario di Demostene, ammoniva che chi esercita un potere pubblico è tenuto a renderne conto. Da noi giudici e pubblici ministeri (tutti magistrati: todos caballeros) sono irresponsabili e, in forza del principio “l’unione fa la forza”, formano un unico potere e peraltro, in numero non irrilevante, sono nei Palazzi degli altri poteri e in posizione strategica: li troviamo presso la presidenza della Repubblica, presso ministeri ed enti pubblici, quali consiglieri giuridici. Si ha così, all’evidenza, una negazione del principio di separazione; inoltre, in violazione del relativo principio, abbiamo poteri irresponsabili: il capo dello Stato, la Corte costituzionale, le magistrature, enti autonomi, eccetera. Aspetti assenti nel proposito riformistico.
Chi riforma? – La domanda parrebbe oziosa perché le riforme, dovendo essere attuate con legge, non potrebbero che aspettare al Parlamento ovvero, per delega di questi, al Governo. Ma il compito non può essere attuato dall’attuale Parlamento, che è delegittimato per effetto dell’annullamento della legge elettorale (n270/2005), in base alla quale era stato eletto nel febbraio 2013.
Già altra volta mi sono espresso su questo tema ma vale la pena ribadire: la legge elettorale prevedeva un premio in seggi per il partito o coalizione di partiti che avesse ottenuto la maggioranza di voti e prevedeva le liste bloccate di candidati. All’evidenza: la violazione del principio fondamentale del sistema di democrazia rappresentativa. Giustamente la Corte costituzionale, con sentenza del 4.12.2013 (n.1/2014), ne dichiarò l’incostituzionalità. Senonché, la sentenza, in una specie di post scriptum, non facente parte, però, della discussione, ritenne che “l’annullamento produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova elezione”. Tale opinione, però, (di opinione si tratta) non è condivisibile, avendo essa “la ragione dell’autorità”
(il prestigio dell’organo) non “l’autorità della ragione” (la forza del ragionamento logico-giuridico). E ciò non senza sottolineare che non competeva alla Corte pronunciarsi in ordine all’effetto dell’annullamento, essendo, questo, compito di qualsiasi organo che debba risolvere una questione nella quale sono implicate le norme poi annullate: insomma l’opinione della Corte non solo esulava dai suoi compiti, non obbliga, non avendo valore di decisione giuridica.
Dunque, se la legge elettorale ha prodotta una oggettiva, grave e irragionevole alterazione della rappresentanza democratica, il Parlamento di conseguenza è delegittimato e, pertanto, andava sciolto a norma dell’art.88 della Costituzione. Non si è riflettuto che dovendosi continuamente verificare, nel corso della legislatura, il numero legale dei componenti delle Camere per la validità delle sedute e delle deliberazioni (art. 64 Cost.) e dovendosi giudicare delle cause sopravvenute di incompatibilità dei componenti di ciascuna Camera (art. 66 Cost.), non si possono conteggiare i nominati per il premio di maggioranza, perché lo vieta, oltre l’art. 136 Cost., anche l’art. 30 della legge n.87/1953, secondo cui “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.
Si può, quindi, attribuire ad esclusiva colpa di Napolitano il tenere in vita il Parlamento illegittimo e il non aver ridato la parola al popolo sovrano: facendo così correre al Paese il pericolo di gravi conseguenze (annullabilità delle leggi in sede giurisdizionale).
Certo far ricorso all’impeachment è impensabile (lo stesso Napolitano ha affermato che si tratta di arma spuntata), tuttavia il suo operato non può sfuggire al giudizio della Storia: parafrasando un noto adagio moscovita (gratta il russo e troverai il cosacco), si può dire di Napolitano: “gratta il democratico e troverai il comunista puro”.
Quali riforme – Pur tenendo ferma l’idea che l’attuale Parlamento non può riformare alcunché, essendo delegittimato, è utile tuttavia indicare alcune riforme necessarie ad un incisivo cambiamento: 1) eliminazione del bicameralismo perfetto, riformando il Senato nei suoi compiti e nei suoi poteri, 2) ridurre in modo significativo il numero dei componenti di entrambe le Camere (100 deputati e 50 senatori), 3) nuova configurazione del presidente del Consiglio, eletto dal popolo, e relativi adeguati poteri, 4) rivisitazione della figura del capo dello Stato, con riduzione dei poteri (ovvero eletto dal popolo), 5) elettività dei giudici costituzionali, 6) raccordo delle istituzioni con la sovranità popolare, 7) eliminazione dell’istituto dei senatori a vita, sia di diritto che di nomina presidenziale.
La giustizia, una riforma impossibile – La giustizia è stata inclusa tra le riforme, ma il progetto governativo non tocca l’aspetto di gran lunga più meritevole di essere riformato, cioè l’assetto giudiziario. E allora si può ben dire che partiuntur montes et nascitur ridiculus mus.
Non si è compreso che i mali della nostra giustizia sono, per usare una nota metafora statunitense, frutti marci dall’albero avvelenato. All’assemblea costituente vi fu chi si mostrò contrario alla configurazione della magistratura quale ordine indipendente: l’on. Luigi Preti affermò che l’ordine indipendente dei giudici apparteneva allo Stato anteriore alla rivoluzione francese (all’ancien régime) e perciò, configurando nello Stato moderno un ordine indipendente, significava “creare uno Stato nello Stato, o quanto meno, una classe chiusa e intangibile”. In Inghilterra non solo vi è separazione tra giudice e pubblica accusa, non vi è irresponsabilità: i giudici sono eletti during good behaviour, cioè finché operino correttamente e possono subire l’impeachment e la destituzione.
Quanto l’on. Preti avesse visto giusto è provato dalla realtà attuale, che mostra una magistratura straripante, autocratica, senza alcuna responsabilità, senza alcun controllo esterno.
Inoltre – ed è il colmo dell’anomalia – si è mantenuto il pubblico ministero irresponsabile all’interno del sistema democratico. Un noto componente del pool della Procura milanese, Pier Camillo Davigo ebbe a vantarsi, nel corso della rivoluzione giudiziaria della fine del secolo appena passato: “possiamo rivoltare l’Italia come un calzino”. Non si è mai visto al mondo un impiegato dello Stato con siffatto strapotere. Persino un grande magistrato, Giovanni Falcone, era giunto a ritenere che “in mancanza di controlli istituzionali sull’attività del P.M., saranno sempre più gravi i pericoli che influenze informali e collegamenti con centri occulti di potere possano determinare l’esercizio di tali attività”.
Berlusconi – che pure auspica la riforma della giustizia – non ha idee chiare in materia, come dimostra sia l’incapacità di comprendere che contro la riforma della giustizia è schierato un poderoso blocco di forze conservatrici, a lui avverse, comprendente Napolitano, la Corte costituzionale, la magistratura, la maggioranza dei media, i poteri finanziari, i giuristi c.d. Democratici; e come dimostra un team di collaboratori adeguati.
Epperò, volere la riforma della giustizia significa farsi illusioni: tra comunisti e magistrati si è costituita una tacita intesa per il loro mutuo sostegno: i primi si avvalgono dei secondi per annientare gli avversari politici, i secondi si avvalgono dei primi per la difesa del loro abnorme potere. Il che è come dire: fino a quando la giustizia dipenderà dagli interessi dei comunisti e dei magistrati non ci sarà alcuna riforma di essa in senso liberale.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.