ARIA DI NAPOLI

Non ho fatto a tempo a salutare Bruno. Se n’è andato solo qualche giorno fa, lasciando a sua figlia Annamaria un bacio per me. Quarant’anni in portineria: sempre discreto, sempre severo con i cialtroni e sempre teneramente burbero con noi che per lui, non eravamo mai davvero cresciuti, e forse aveva ragione. Lui era in pensione ma abitava nel terraneo di fronte alla guardiola ed il portiere lo faceva lo stesso; nessuno sfuggiva al suo controllo: il palazzo era suo, il palazzo era lui. Certi nuovi ricchi – di quelli che pian piano soppiantano noi nuovi poveri e col loro censo senza qualità stanno sfigurando il corpo e l’anima della mia città – maldigerivano questa sua permanenza e portarono noialtri in giustizia, ma lui non ha dato loro la soddisfazione d’una sentenza, quale che fosse. Stamattina le sue piantine in fila su quella finestra troppo lunga, troppo alta e troppo stretta chinavano le foglie con malinconia.

Intanto, la nostra casa è vuota, adesso. Tutte le volte che succede si viene ad officiare il rito del contratto e della nostalgia, giorni rubati tra un’occupazione e un’altra tirando fuori dallo stipone buio gli scatoloni con i pezzi di un tempo andato, non senza indulgere in ancestrali fantasie a base di olio bollente e catapulte verso ignari potenziali inquilini.

Sulla specchiera del trisavolo l’angiolo ha sempre il rosario imbrigliato in quel blasone scomodo e se ne sta guardare il mare incurante del peccato d’origine e del fracasso del cantiere della metropolitana. Abbiamo spalancato balconi e finestre e a fine controra c’è sempre la brezza, mentre il sole si ritira lasciando un cielo barocco dietro Posillipo. Don Pasquale all’edicola mi dice: “uèèèèè” e mi tende il Giornale come fossi partita ieri e “qual buon vento vi porta?”, e più su, all’Egidius (un bar con il nome del beato di quartiere si può trovare solo qui e magari a Pietrelcina), un altro “Don” di cui ho scordato il nome: “volete un litro di latte, eh? Avete trovato il supermercato chiuso, e teng ‘a fila! Uaglio’ dacc na butteglia e latt ‘a signora”. Egidio, il beato ora promosso a santo, se ne sta in un’urna dorata col suo saio e “non è una statua, è proprio lui: quando si scompone, lo aggiustano con un po’ di cera e mettono gli ossicini in quel vaso” Parola di nonna: terrificare gli infanti era un dovere educazionale in quel tempo ed è certo che l’ipotesi di contrariare il monaco dormiente ci rendeva scolari quasi impeccabili.

A Carlo Poerio c’era una cappelletta dove s’andava a messa qualche volta la domenica. Porziuncola abbondante di santi dolenti, cadde in abbandono dopo la morte del parroco di cui ricordo ancora la lisa sottana e la voce accorata che m’intimidiva assai. I cialtroni, dietro il cancelletto di ferro ci buttavano di tutto: lattine, bottiglie, mozziconi, cartacce e passando tutte le volte mi veniva il groppo e mi pareva che neanche in Paradiso quel sant’uomo del prete potesse darsi pace di una simile vergogna. Ma ora ogni cosa è tornata al suo posto, anche le anime, e nella cappella c’è un’elegante libreria antiquaria. Perchè i libri – quelli veri – non si possono uccidere a Napoli. Cacciati a pedate da PortAlba, chiedono riparo a Dio come i fuggiaschi. E Dio li accoglie. E sono certa pure che i libri preghino, nella penombra della chiesupola, che si dia voce ai volti che si incontrano per strada, con i loro sorrisi disincantati, a quell’umiltà operosa della quale nessuno parla.

Poi, certo, ieri con gran fracasso è caduto un pezzo del vecchio eucaliptus della Villa Reale, mutilato come la Cassa Armonica dietro di lui, dalla demenza dei potenti sordi ai moniti delle nonne (e di chi gli è stramortoedoppio, come si dice qui). Ma Napoli si difende ancora, lungi da essere morta, e non è retorica. La lasciassero in pace senza chiacchierare a vanvera potrebbe perfino ritrovare se stessa e conferire dignità a questa terribile, meravigliosa anarchia che è nel suo sangue, come nel sangue dei suoi Martiri. Nessuno di noi se ne è andato sul serio. L’estero? E che è?

Ogni sera, all’imbrunire i monaci cantano i Vespri. Chi vuole, può unirsi a loro e poi sostare nel fresco del cortile, davanti alla clausura, dove c’è la Madonnina di Lourdes e deporre uno spicciolo nella cassetta per i poveri, per tutti i poveri. Ora che gli alberi sono cresciuti non si nota nemmeno più quello spillone d’acciaio contrabbandato per opera d’arte che, spezza la vista verso il mare. E poi, le campane, a scandire le ore e le opere. Si, le campane, embé? Che c’è il chiasso lo dicono gli altri, che non hanno ‘recchie per sentire.

Oggi, dal “Delicato” pennette allo scarpariello a tre euri e cinquanta. Ma anche: “se volete la pizza di scarole, telefonateci la mattina”. Lasciano la lista del giorno, sotto al palazzo, giustamente nella portineria. “Pasquale, allora?” “ebbuon! ci mangio pure io”. Pasquale è il giovane portinaio, ma è stato istruito da Bruno, per più di un anno: un palazzo non si lascia a chiunque, ci vuole scuola. Capito, nuoviricchidelpiffero? Voi che serrate a due mani il portafogli e non guardate negli occhi nessuno? Voi che non avete mai messo piede nella Stazione Zoologica e non sapete chi è Alvino? Voi che “in nome delle regole” speculate allegramente sulle lacrime degli altri con la complicità degli scribacchini della cattiva propaganda? Fuori di qui. L’aria di Napoli vi soffocherà. È più forte dei vostri zozzi egoismi, nonostante tutto.


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Commenti

2 risposte a “ARIA DI NAPOLI”

  1. Avatar Marina
    Marina

    Che nostalgia di Napoli, cara Angela…di questa Napoli che descrivi e che è quella vera!
    E come è vero che spaventarci da piccoli era educativo!Ricordo che mi insegnavano a non sperperare il cibo perché ogni “mollichella”gettata dalla tavola voleva dire che dopo morti con un dito acceso in cima dovevamo andarle a ricercare tutte!
    Ma così si capiva l’importanza di non sperperare.
    Un pò come i gatti, Napoli E’.E non c’ è bisogno di dire altro.
    Grazie!
    Marina Alberghini

  2. Avatar Angela Piscitelli
    Angela Piscitelli

    Grazie a te, Marina.Si, noi Napoletani siamo come gatti a cui pero’ è stata sottratta la casa.Io sono partita, ma tutte le volte che torno la ritrovo, distesa al sole,aristocratica nelle fattezze, canzonatoria e triste, proprio come un gatto.
    E la vita, quella in cui il pane non si sprecava,e i morti e i Santi erano tra noi, e sisentiva il rumore della risacca,quella vita ritorna, perchè non se ne è mai andata.Siamo emigranti, ma nella valigia ce solo lei.

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