Si dice che i partiti italiani siano malridotti; taluno aggiunge: ʺfinalmente!” Un problema tutto italiano è quello del partito ex-comunista: organismo da tempo in crisi di dissolvimento, ma ancora detentore di una non trascurabile fascia di elettorato. Ormai privo di programmi, ʺtira a campareʺ utilizzando proposte tratte dai programmi altrui, spesso contraddittorie. La stessa conclusione della sua storia è la riprova della sua carenza di idee. Le teorie politiche consistenti tramontano lasciando eredità vive, dalle quali poi nascono idee nuove spesso fertili -; il marxismo invece ha lasciato dietro di sé solo una teoria ʺnon falsificabileʺ (Popper).
Che può fare di se stesso un partito privo di programmi, per conservare una sua personalità senza trasformarsi in un corpo inerte atto solo ad assorbire denaro pubblico? Trasformarsi in un apparato di pura gestione del potere, un ennesimo ʺaffarismoʺ politico? Le vie tentate, riconducibili tutte ad un partito riformista, simile agli altri già nati dal disfacimento della teoria marxiana, non hanno funzionato: la ʺbaseʺ non vuol saperne. Del resto, ogni trasformazione del partito è resa difficile dalla rigidità sacerdotale della sua storia.
Intanto, un partito d’opposizione serio sarebbe forse la soluzione del problema. Infatti il Partito Democratico, che sembra non avere vie d’uscita, ne ha invece una: se ha una vocazione, essa non può essere che la lotta contro le ingiustizie sociali. Dunque: liberarsi delle diversive ʺsovrastruttureʺ marxiane e tornare francamente alla pura e semplice vocazione. Lottare per una finalmente equa, o almeno non troppo indecente, perequazione dei redditi. Questo, tra l’altro, non sarebbe neppure un ʺdietro-frontʺ agli occhi dei suoi elettori.
E’ possibile che anche il declino della Democrazia Cristiana sia stato affrettato dalla troppo prolungata ʺdanza degli scorpioniʺ condotta in duetto col PCI, che finì col disgustare sia coloro a cui la cosa non conveniva in prima persona, sia i cattolici sinceramente tali. Strano a dirsi, anche i sistemi clientelari debbono ogni tanto ʺcambiare per restare immutatiʺ (metodo ʺGattopardoʺ).
Il liberalismo, simile ad un inedito virus benefico, può vivere solo in simbiosi con un partito atto a accoglierlo. Questa, che sembra una debolezza, è invece la sua forza, la sua patente di nobiltà: perché esso non è un partito, è una koinonía agathon (comunità di gente per bene, ndr), il prerequisito d’ogni partito serio. In Italia, patria di tutte le tendenze anarchiche o totalitarie, dunque paese che politicamente ha avuto sempre fretta di risolvere alla svelta i propri guai, il liberalismo, sentito come un dispositivo troppo lento, ha solo destato una simpatia che assomiglia ad una strana nostalgia di cosa mai accaduta. Gli apporti di personalità di grande valore, come Benedetto Croce (che già Togliatti definiva, per obliqui motivi anti-gramsciani, non un filosofo, ma un erudito d’interesse meramente locale), furono trascurati sia per la sbrigativa antitesi ʺanarchia o totalitarismoʺ, sia per la violenta lotta per il voto tra DC e PCI. Aspetto, quest’ultimo, che sinceramente non si riesce a condannare del tutto: in un paese afflitto da ingiustizia sociale cronica, con la povertà sempre dietro la porta e spesso già in casa, e con una politica sempre incapace di fornire civili ʺserviziʺ ad un pubblico sempre trascurato, che cosa fare se non sperare in aiuti clientelari ed elettoralistici? Verità forse incivile, ma comprensibile. La partitocrazia intanto puntava proprio su questi stati d’animo da ʺpronto soccorsoʺ: donde un circolo vizioso che del liberalismo aveva veramente poco che farsi.
I Socialisti, nel quadro qui sopra descritto, costituirono e costituiscono il posto vacante della nostra politica. Nel dopoguerra, un socialismo autentico, finalmente svincolato dalla sudditanza comunista, fu proposto prima con Craxi, poi con Berlusconi. Ed è molto significativo notare che entrambe le volte si trattò dell’unica cosa che il socialismo può essere: un socialismo liberale. Che, tra l’altro, è il vero ʺsogno politico italianoʺ che ha scosso il nostro secolare dormiveglia.
L’inflessibile, repentino modo di eliminazione delle due parentesi liberalsocialiste è stata la riprova d’un fatto irrefutabile: il socialismo liberale costituirebbe non solo la vera novità politica di cui ha bisogno l’Italia, ma la sola via oggi praticabile. La tradizione recente e meno recente non dice altro: il socialismo italiano c’è stato, quando è stato questo.
Come dire che, se per ʺsinistraʺ e per ʺsocialismoʺ si intende ciò che questi due termini politicamente significano, trascurando le connotazioni tattiche proposte dagli schieramenti via via succedutisi dagli inizi del ‘900, essi non possono significare che quel che sono in Scandinavia, in Inghilterra, e nei partiti di sinistra ad essi corrispondenti in Europa: una indispensabile componente del mosaico politico, attenta alla principale preoccupazione che oggi impongono lo ʺtsunamiʺ demografico e il globalismo: la giustizia sociale. Da noi anche il liberalismo, quando si occupò di politica, si preoccupò proprio di questo: si pensi ai Rosselli ed a Gobetti.
Ma che vuol dire tutto ciò? In Italia, la situazione generale è ancora quella, anzi: più che mai quella, delineatasi nel secondo dopoguerra. Sul piano politico, tuttavia, si è generato poco alla volta qualcosa di simile a ciò che i fisici chiamano un attrattore strano: tutto ciò che ha valore politico converge spontaneamente verso l’unica via praticabile, atta a sventare anarchismi, totalitarismi, nonché la piaga del malaffare partitico: ripeto, la forza nuova, e non nuova, che è il socialismo liberale. Che suggerisce l’unico dibattito che realmente occorre riprendere: un dibattito intimamente realistico. Tale è, in ultima analisi, il senso del termine ʺliberaleʺ: rifiuto delle astrazioni demagogiche, dei dogmatismi, delle tentazioni ribelliste, degli interessi di singole caste. Ed è qui che socialismo e liberalismo sono irresistibilmente destinati a convergere, per simiglianza di mezzi e identità di scopi. E’ la risposta non audace né strampalata che può darsi a chi chieda perché mai intestardirsi a mantenere la barra del timone verso il ʺcraxismoʺ. Un proudhonismo forte: tale sarebbe stato anche il berlusconismo se Berlusconi fosse stato sempre forte.
Il ʺberlusconismoʺ. Una posizione politica ormai sconfitta, direte voi. Noi speriamo e crediamo, invece, solamente ʺsospesa”, anche al di là della possibile rinuncia di Berlusconi (rinuncia, o disgusto, che sarebbe comprensibile, dopo tutto quel che l’hanno costretto a sopportare). In modo magari non limpido, perché la politica è cosa di questo mondo, con tutte le esitazioni e i difetti che questo mondo impone, gli anni di guida berlusconiana hanno perseguito, o intendevano perseguire, l’attuazione dello stato minimo: eliminazione di organismi ed enti superfetatorî, ridimensionamento del personale politico e amministrativo, riduzione della spesa pubblica. Ciò è stato impedito da tutti gli altri partiti per motivi tanto noti ch’è inutile analizzarli ancora. Il liberalismo è un movimento politico che, all’opposto dell’ideologismo, vuole ʺminimoʺ anche se stesso: il suo programma infatti potrebbe miniaturizzarsi come concretismo (prima i fatti e i progetti, poi le soluzioni; mai viceversa). Le condizioni dell’economia mondiale, piegando quasi verso un default generalizzato, hanno giocato, per eterogenesi, a favore dei nemici di Berlusconi. I privilegi ʺdi nicchiaʺ sono diventati ancor più prioritari di quanto sfacciatamente fossero prima.
Una efficace politica liberale non può prescindere dalla ʺforzaʺ: questo è il fatto. In Italia molti hanno creduto, e ancora credono, che ʺliberalismoʺ sia sinonimo di cedevolezza, di azione blanda. E’ un convincimento probabilmente causato anche dagli atteggiamenti dei liberali stessi. Il governo berlusconiano ha mostrato già sul nascere che questa è stata la sua vera difficoltà: a partire dallo sciagurato cedimento al ʺconsiglioʺ (in realtà, un ukase) di Scalfaro.
La debolezza, in termini psicologici, significa: timidezza. Così come, in termini politici, timidezza significa debolezza. Un vero politico è anche munito di ʺfaccia tostaʺ: vedi ancora Craxi. Più volte Berlusconi ha creduto che, cedendo, avrebbe domato l’avversario col… buon esempio (accade puntualmente ai timidi: è una legge psicologica, dunque meta-storica, alla quale ancor oggi ad es. cedono coloro che immaginano che gli anti-Tav possano essere domati in modo indolore). E’ l’errore dei liberali immaturi che, poiché rifuggono dalla violenza, stentano ad individuare il necessario confine che separa la violenza dalla determinazione. E poiché le leggi dell’umana convivenza, storicamente necessitate e quindi mutevoli, si formano su di un fondamento ch’è l’immutevole ʺumanoʺ, Berlusconi infine, probabilmente spinto da un non meditato parere di Frattini, si è risolto a… ripetersi, ad eseguire il suo ultimo errore: il tradimento di Gheddafi, con tutto quel che ne è seguito sia quanto ad accesso al prezioso ʺoro neroʺ, che quanto a credibilità internazionale ed a fiducia da parte dei governi del Nord Africa. Immaginate un Berlusconi che si fosse tirato fuori dalla ignobile congiura? Sarebbe stato all’origine di una nuova Italia, forse anche di una nuova Europa. Invece ci fu un errore ʺda manualeʺ: come Rimbaud, Berlusconi a perdu sa vie par delicatesse.
Tornando al problema dei nostri malandati partiti e governi: il Governo Monti, che siamo in molti a considerare ancora armato di buone intenzioni, ha il difetto tipico delle visioni immanentistico-tecniche: senza forti priorità etiche, ovvero senza veementi ideali di umana giustizia, ʺnon si va da nessuna parteʺ. Stiamo assistendo ad un mostruoso crollo della politica, dell’economia, della ʺtecnicaʺ di Stato. Monti e la sua équipe debbono capire una buona volta che i grandi patrimonî, i grandi guadagni delle sfingi amministrative, i grandi compensi al popolo dello spettacolo e dello sport, NON sono compatibili con una politica di risanamento. Prendersela con la miriade di spiccioli dei pensionati non ha senso. Ed è una svergognata ingiustizia.
Hanno i componenti del suo governo paura di eseguire una mossa di decisivo riequilibrio economico? Ma no, si facciano coraggio, anche se in negativo: se non si affrettano a provvedere illico et immediate, rischiano di peggio, di molto peggio. Oggi come oggi, la paura stessa consiglia l’audacia: si deve scegliere per… la paura minore. Di buona gente in giro ce n’è molta, ed ha ormai le tasche vuote e il domani incerto, la pazienza a pezzi, i freni inibitori al limite della tenuta.
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