IL PROCESSO

Dopo essermi occupato dell’ordinamento giudiziario, con particolare attenzione all’assetto giudiziario, vale a dire degli organi cui è affidata l’amministrazione della giustizia (ed ho cercato di dimostrare, per tabulas, che tra essi non è compreso il pubblico ministero), comincerò ad occuparmi di sua maestà il processo: lo strumento di massima garanzia per i diritti delle persone in una società democratica, come è comprovato da tutte le Carte internazionali, anche la nostra, che prevedono le linee del “giusto processo”, tra le quali primeggia la figura del giudice terzo.

Prima d’inoltrarmi su un terreno così irto di difficoltà e che affonda le radici in un humus culturale instabile sebbene fertile, ricco delle più interessanti esperienze della giustizia umana, mi preme avvertire che tratterò dei temi del processo da un punto di vista esclusivamente giuridico o, se si vuole, politico-giuridico, richiamandomi a Francesco Mario Pagano, filosofo e giurista napoletano del XVIII secolo, che nelle sue “Considerazioni sul processo criminale” ammoniva: “se per indagare e punire i delitti sciolgansi soverchiamente le mani al giudice, ond’ei ardisca, ed illimitatamente adoperi; se la legge gli somministri il mezzo, per cui o il cieco zelo, o la malvagità coverta del manto del giusto, possa attentare sui diritti del cittadino, abusare del sacro deposito del pubblico potere, la libertà e l’innocenza (…) non saranno giammai sicure” (Pagano, Giustizia criminale e libertà civile, Editori Riuniti, aprile 2000, Introduzione, pag. 37).

Ecco i due aspetti del processo penale che costituiranno il filo conduttore dell’indagine che mi accingo a compiere: le strutture del processo ed i poteri delle persone che vi agiscono. Devo però avvertire che i due aspetti dell’indagine sono bensì separati ma implicantisi, come se essi vivano in una simbiosi giuridica, onde non si comprende l’uno senza considerare l’altro: ne è riprova il fatto che ad ogni nuovo processo si accompagna una riforma di ordinamento. Così è accaduto anche con la legge-delega n. 81/87, che infatti, concedeva la delega al Governo ad emanare assieme al nuovo codice di procedura penale ed assieme la delega ad adeguarvi le relative norme di adeguamento dell’ordinamento giudiziario.

Un primo approccio a questo tema sta nel rendersi conto del significato del termine: il processo indica un cammino (da procedere) di più persone verso una meta. Quale meta? Tutti sanno che il processo implica la giustizia, ne è il necessario strumento, ma che cos’è la giustizia? I più ingenui o coloro che vanno a caccia d’ideali, identificano la giustizia con la verità, onde il processo è il cammino per giungere alla verità in ordine ai fatti oggetto dello stesso. In definitiva, il processo sarebbe lo strumento per fare giustizia attraverso l’accertamento della verità. Ad esempio, il codice di procedura penale del 1931 (il codice Rocco) stabiliva che il giudice istruttore aveva l’obbligo di compiere prontamente tutti e soltanto quegli atti necessari per l’accertamento della verità.(art. 299). Dunque, una connotazione etica del processo.

Ma, l’impegno ad accertare la verità postulava un carico normale di lavoro giudiziario, impensabile ai tempi attuali, nei quali si registra una difficoltà sempre crescente a smaltire ciò che entra nell’input del lavoro giudiziario (e per il penale è solo una piccola parte dei reati commessi): le statistiche nel denunziare impietosamente i conti in rosso della giustizia segnalano appunto l’esistenza di arretrati da capogiro (nell’ordine di milioni), nel settore civile come in quello penale. E’ meglio allora restare coi piedi per terra: piuttosto che anelare alla verità irraggiungibile; contentiamoci di un surrogato di verità, di quella che i giuristi chiamano verità probabile o verità processuale (cioè quella che emerge dagli atti).

Si rifletta: se un giudice assolve l’imputato e il giudice dell’appello invece lo condanna – o viceversa – chi dei due giudici ha colto la verità? E chi può dirlo? E’ il mistero del processo penale nel quale qualche volta obbliga a scandagliare l’animo umano. Si tenga poi presente che il giudice ha un compito da storico perché deve ricostruire il passato, deve accertare ciò che è già accaduto, ed anche questo è indicativo delle possibili insidie che si celano lungo il cammino della giustizia. Ne erano convinti i popoli del Medioevo, i quali ricorrevano ai cosiddetti “giudizi di dio” (le ordalie), cioè prove (ad esempio quella del fuoco) alle quali i contendenti o l’accusato di un delitto liberamente si sottoponevano (al cui esito era legata la decisione), nella credenza che la divinità non potesse che intervenire se non a favore di chi avesse ragione o di colui che fosse innocente.

Ma il progresso della scienza della conoscenza ha portato alla conclusione, forse deludente ma realistica, che la verità è tale fino a che non ne venga dimostrata la falsità (Popper). Anche la verità processuale vale (cioè non si può rinunciare ad essa), ma può essere dimostrata falsa in un successivo giudizio in cui facciano ingresso nuove prove o nuovi fatti. In conclusione, non esistono metodi infallibili per conoscere il passato, tanto meno era infallibile la tortura, che ha dominato per parecchi secoli il corso della giustizia umana, macchiandola di sangue (ricordiamoci di Torquemada o, per star dalle nostre parti, della “colonna infame” ).

Allora, è bastevole che il processo metta capo ad una decisione giusta, nel senso della logica e delle norme e, soprattutto che non desti inquietudini e perplessità nell’opinione pubblica. E qui la struttura del processo incrocia la qualità dei soggetti che menano le danze, massimamente la qualità di chi è chiamato a giudicare: si chiama professionalità, che deve essere adeguata alla altissima funzione di garanzia che il giudice è chiamato a svolgere. E dunque, il processo visto da un punto di vista della struttura è un complesso di atti che tende ad una decisione la quale proclami un risultato di verità probabile (in questo senso di giustizia); ma il processo è anche una rappresentazione scenica nella quale si muovono vari soggetti, ciascuno per un proprio interesse. I romani definivano il processo, da un punto di vista soggettivo, come atto di tre persone: accusatore, accusato (nel civile: attore e convenuto) e il giudice.

Venendo ora ai modelli processuali, si evidenzia come essi siano vari, a seconda dei popoli che lo praticano e dei tempi in cui vivono. Essenzialmente i modelli sono due, anche se vi sono modelli cosiddetti misti, che hanno qualcosa dell’uno e dell’altro.

Il modello più antico è quello denominato “accusatorio” e che risale (oltre che alla Grecia) al diritto romano, fino all’ultimo periodo repubblicano, cioè anteriormente al periodo imperiale: non a caso coincide col periodo della storia romana che possiamo definire, con termine moderno, liberale.
Ha i seguenti connotati: 1) il giudice opera solo se è mosso da un soggetto ad esso estraneo (onde garantirne la terzietà), 2) il processo è pubblico e perciò orale (onde garantire la trasparenza di una funzione che tocca beni fondamentali degli individui), 3) la parità di armi tra accusa e difesa (onde scongiurare la prevaricazione dell’accusatore sull’accusato), 4) il giudice non ha alcun potere in ordine all’acquisizione della prova (altrimenti non sarebbe terzo), 5) la libertà dell’accusato lungo tutto il corso del processo (per garantirne il più ampio esercizio del sacrosanto diritto di difesa).
Viceversa, il modello “inquisitorio”, che risale al periodo di Roma imperiale ed al diritto canonico (si ricorda la sacra inquisizione contro gli eretici) e che si è protratto per secoli, ha i seguenti connotati: a) il processo ha inizio di ufficio, senza l’iniziativa di un accusatore, magari a seguito della voce pubblica, b) la procedura è segreta nei confronti di tutti, anche dell’accusato, c) le prove sono raccolte dal giudice senza che l’accusato ne sia a conoscenza o che possa intervenire nell’acquisizione, d) il processo è interamente scritto, e) la carcerazione preventiva, fino al giudizio, era la regola perché l’imputato era presunto colpevole fino a prova contraria.

L’intreccio (la simbiosi) tra struttura del processo e soggetti che vi operano è del tutto evidente. Invero, nell’accusatorio (il processo inizia con un’accusa) l’accusatore e l‘accusato sono distinti e ugualmente distanti dal giudice, inoltre le parti sono ad armi pari ed hanno poteri rilevanti, soprattutto, in ordine alla acquisizione della prova, mentre il giudice è garante della regolarità della contesa tra accusatore ed accusato ed è, ovviamente, l’organo della decisione, che deve valutare se l’accusa sia, o meno, fondata.
Nel processo inquisitorio, invece, il ruolo delle parti è svilito, specialmente quello dell’imputato, che è più oggetto che soggetto del processo. Predomina l’imperialismo del giudice.

Per completezza espositiva devo ricordare che dopo la caduta del fascismo fecero ingresso nel codice di procedura penale alcune garanzie difensive, onde si parlò di processo inquisitorio garantito. Ma restava l’aspetto di fondo di un sistema che oramai era in irriducibile contrasto con i nuovi valori della democrazia, tra i quali l’uomo centro dell’ordinamento giuridico. Bisognava cambiare tutto, dalle fondamenta, ma le resistenze erano tante ed agguerrite, da far naufragare, nel 1978 un progetto di nuovo codice. Sennonché, successivamente, il Parlamento, con legge n. 81/1987, delegò al Governo l’emanazione di un nuovo codice di procedura penale e di norme che vi adeguassero l’ordinamento. Recitava l’art. 2: “Il codice di procedura penale deve attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale. Esso inoltre deve attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio, secondo principi e criteri diretti specificamente dettati in centocinque punti.

Non starò qui ad indicare questi principi e criteri, mi preme, però, sottolineare come, tra interventi successivi del legislatore e della Corte costituzionale, travisamenti interpretativi e mancato adeguamento ordinamentale, nonché resistenze varie, anche corporative, si sia configurato un falso processo accusatorio. Tra i contrari al codice vi era chi diceva che il nuovo codice non garantiva il fine del processo, vale a dire il raggiungimento della verità dei fatti (osservazione che denotava il retaggio culturale dei tempi andati, come più sopra ho osservato); vi era pure chi diceva che il codice concedeva troppe garanzie alle persone coinvolte nella vicenda penale (dimentichi che le garanzie sono previste dalla Costituzione). Ad ogni modo, se non si riuscì ad impedire l’avvento della rivoluzione, costituita dall’adozione del sistema accusatorio, si tentò, e con successo, a boicottarlo.

Permane, infatti, il vincolo organico tra giudice e pubblico ministero, che ha messo fuori corso due principi cardini del modello di processo accusatorio adottato dal legislatore, vale a dire la terzietà del giudice e la parità tra accusa e difesa: se giudice e pubblico ministero restano colleghi non c’è giudice terzo, indifferente all’oggetto della contesa, come non c’è parità tra accusa e difesa. Inoltre, l’oralità del processo, altro connotato essenziale del processo accusatorio, è ridotta al lumicino, perché filtrano nel dibattimento, attraverso le contestazione ai testimoni, i verbali redatti dal pubblico ministero in segreto, senza contraddittorio. E resta pure l’assurdo che una parte – il pubblico ministero – possa avere la supremazia sull’altra – l’indagato -, ad esempio facendone oggetto ad inquisizione.

Insomma, per non tirarle troppo per le lunghe, mi sento di affermare che si è verificata una degenerazione del processo accusatorio: l’imputato ha sempre di fronte il giudice e l’accusatore, che spesso si scambiano i ruoli, fatto che marca maggiormente l’illegittimo connubio tra pubblico ministero e giudice, tra l’accusatore e chi deve decidere della fondatezza dell’accusa.
Dobbiamo fare il funerale al giusto processo? oppure i magistrati non si ostineranno più ad ostacolare una giusta riforma, che rimetta sui giusti binari la nostra giustizia? Possiamo ancora sperare che una classe politica dia finalmente all’Italia il giusto processo?

Marsilio
Zona di frontiera, 30 Marzo 2012


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