E’ tristemente nota la situazione delle carceri, che, per essere superaffollate (si dice che ospitano – si fa per dire – un numero quasi doppio di quello di una normale, dignitosa capienza), non è da paese civile. Marco Pannella si spende con impegno – sono noti i suoi digiuni – per indurre i politici a porvi rimedio: propone l’amnistia; ma il neo Ministro di giustizia, Paola Severino, è per una soluzione che sta tra l’amnistia e l’indulto. L’amnistia, che di solito riguarda solo i cosiddetti reati bagattellari – cioè la microcriminalità (però è quella che più preoccupa la gente) – ha di positivo che con una fava coglie due piccioni: riduce il sovraffollamento carcerario e l’arretrato del lavoro giudiziario (dell’ordine di milioni in penale); senza dire, poi, del risparmio economico per l’esangue erario statale (il mantenimento del detenuto ha costi elevati). C’è però, da considerare il risvolto negativo, cioè la diminuita sicurezza pubblica e l’allarme sociale che la scarcerazione di migliaia di delinquenti necessariamente comporta. Una più accettabile soluzione all’annoso problema sta nella costruzione di nuove prigioni, ma anche tale soluzione, a parte il problema del tempo per la loro realizzazione, comporta una enorme spesa, tenuto conto anche del conseguente aumento di guardie carcerarie. A mio avviso la soluzione ottimale sta nell’uso minimo della carcerazione preventiva e, per i condannati, riservare la pena detentiva ai reati gravi. Limitando qui la riflessione sull’uso da parte del giudice della carcerazione preventiva (oggi si chiama “custodia cautelare”) è utile un approccio storico alla comprensione di questo istituto.
In passato, mancando una definizione delle relative finalità, la carcerazione preventiva veniva disposta per gli scopi più vari: per espiazione anticipata della pena (posto che l’imputato era presunto colpevole anche prima che intervenisse il giudizio), ovvero per ottenere la confessione od anche la collaborazione dell’imputato (reminiscenza, in forma diversa, della famigerata tortura medievale: non bastava la confessione occorreva una seconda tortura per la denuncia dei complici). Il nuovo codice di procedura penale, emanato nel 1988, ha fortemente innovato la disciplina della carcerazione preventiva (che il grande penalista liberale, Francesco Carrara, aveva definito “vergogna della giustizia penale”), stabilendo che essa può essere disposta a) solo quando si proceda per reato di una certa gravità (art. 280 cod. proc. pen.), b) solo quando il giudice sia in grado di formulare una prognosi di colpevolezza, in base a gravi indizi (art. 273 cod. proc. pen.) e, oltretutto, c) solo se sussistano specificate esigenze cautelari, vale a dire evitare il pericolo d’inquinamento delle prove, evitare la fuga dell’imputato, evitare la ricaduta nel reato (art. 274 cod. proc. pen.). Ma si sa che le riforme camminano sulle gambe degli uomini; da noi manca la copertura culturale alla protezione dei diritti umani; permangono invero sedimenti della dottrina illiberale del passato, che era più attenta alla difesa della collettività che non a quella dell’individuo. L’esperienza ha fatto registrare invero una scarsa protezione dei diritti umani. Insomma si continua, come per il passato, a strumentalizzare la persona che sia finita coinvolta nell’accertamento penale. Singolare l’affermazione dell’ex Procuratore milanese, Francesco Saverio Borrelli, “Noi non incarceriamo la gente per farla parlare. La scarceriamo dopo che ha parlato” (Il Giornale 4 giugno 1993).
I metodi engagé del pool milanese ed il relativo clamore portò in Italia nel novembre 1993 una delegazione della “Federazione internazionale dei diritti dell’uomo” (due alti magistrati francesi, un noto avvocato parigino e un deputato francese) per vedere chiaro nella clamorosa rivoluzione giudiziaria italiana e nelle altrettanto clamorose gesta di Antonio Di Pietro, “il magistrato più amato dagli italiani ed il più conosciuto nel mondo” (potenza della stampa che lo invocava quasi fosse un santo: “Di Pietro facci sognare”). La delegazione redasse un rapporto – pubblicato dalla rivista “Parlamento Italiano”, ma che non ebbe alcuna diffusione nei media italiani -, il quale mise il dito nella piaga: abuso della carcerazione preventiva! Gli eccessi constatati – si legge nel rapporto – sono ancora più preoccupanti perché a tutt’oggi sembrano sottratti a qualsiasi tipo di controllo, atteso che i ricorsi al Tribunale della liberà sono rigettati, ma non per ragioni giuridicamente sostenibili. Inoltre, prosegue: “il compito di purificatori che taluni magistrati si attribuiscono e che essi pubblicamente proclamano solleva problemi delicati nel rapporto tra potere giudiziario, potere esecutivo e potere legislativo e non solo perché molti politici sono oggetto della maggioranza dei procedimenti… ma per la distorsione di tali rapporti, che può andare oltre il caso specifico e determinare una preoccupante incrinatura nell’ordinamento democratico”.
La rivoluzione giudiziaria, che andò ancora avanti per qualche mese, fece emergere la figura del magistrato “militante”, che opera, irresponsabilmente: alcuni per il nobile fine (ma utopico) della purificazione della società toccata dalla corruzione, altri per fini politici, quasi sempre in sintonia coi partiti di sinistra (che una volta si proponevano di cambiare il sistema a somiglianza delle democrazie popolari comuniste, oggi vogliono moralizzare il sistema capitalista). Sempre strumentalizzando l’uomo. Essendo questa la prassi giudiziaria, certamente non lodevole, la classe politica dovrebbe decidersi: attuare anche per quest’aspetto la Costituzione. Invero, nella disciplina del carcere preventivo confluisce una serie di disposizioni costituzionali, che concorrono a dare una dimensione liberale all’istituto. A cominciare dall’art. 13 che, pur proclamando, in via di principio, che “la libertà personale è inviolabile”, prevede la possibilità della detenzione solo per atto motivato del giudice e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Ora, queste due condizioni per l’uso del potere coercitivo – riserva di legge e riserva di giurisdizione – segnano l’emersione di disposizioni costituzionali che interessano da vicino la carcerazione preventiva.
In primo luogo, la legge nel disciplinare la privazione della libertà personale nel processo non può prescindere dal fondamentale principio di presunzione d’incolpevolezza dell’imputato lungo tutto l’arco del processo (art. 27, comma 2): discende che non è legittima alcuna limitazione della libertà personale sulla base di una colpevolezza solamente presunta. A stretto rigore, perciò, anche le esigenze cautelari stabilite dalla legge (art. 274 del cod. proc. pen.) contrastano con la presunzione di non colpevolezza, perché, a ben vedere, i pericoli d’inquinamento della prova o di fuga o di commissione di altro reato presuppongono che il soggetto sia colpevole, ancorché sulla base di gravi indizi. Tuttavia, ad evitare l’uso indiscriminato della carcerazione preventiva, è stabilito che i pericoli che si vogliono evitare devono essere concreti, cioè desunti da specifiche situazioni di fatto, espressamente indicate nel provvedimento che dispone la libertà personale; inoltre, è stabilito che la misura detentiva può essere disposta solo se ogni altra misura, non detentiva, risulti inadeguata al fine (art. 275 cod. proc. pen.); e, infine, è stabilito che non è ammessa carcerazione preventiva se la pena, che si presume possa essere inflitta, sia nei limiti per la sospensione condizionale o di altra causa estintiva.
Per ultimo, non ultimo, c’è il diritto “inviolabile” di difesa in ogni stato e grado del procedimento (art. 24, comma 2); che è assai compromesso, o addirittura reso impossibile, dallo stato detentivo (diritto che è anche difesa personale, oltre che di assistenza di avvocato). Si pensi alla ricerca di testimoni a favore o di altra attività analoga.
In conclusione, se si osservassero rigorosamente (come è doveroso, trattandosi della libertà personale), tutti i presupposti di legge di cui ho appena detto, si concluderebbe che il ricorso alla carcerazione preventiva è ipotesi del tutto eccezionale per casi eccezionali. L’esperienza quotidiana dimostra invece che le manette scattano anche contro la rigorosa disciplina normativa. La riprova è data dalla previsione di riparazione di ingiusta detenzione della persona assolta (art. 314 cod. proc. pen.). Gli è che l’uso abnorme della carcerazione preventiva – che può produrre gravi distorsioni nell’amministrazione della giustizia penale (si spensi ai numerosi detenuti in attesa di giudizio che si sono tolti la vita in carcere, ovvero le numerosissime persone innocenti che hanno dovuto subire il carcere per mesi, a volte per anni) – accresce il potere del giudice nella società, producendo, però, il cosiddetto terrore giudiziario.
L’altra riserva, quella giurisdizionale, postula non soltanto che il provvedimento coercitivo debba essere emesso da un giudice, ma che questi debba essere imparziale, super partes. Lo impone l’art. 99 della Costituzione, il quale, nel prefigurare le linee essenziali del giusto processo (già peraltro sancite dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 ed entrata a far parte del nostro ordinamento giuridico), prevede la figura del giudice “terzo”, cioè di un giudice che sia equidistante così dall’imputato come dalla pubblica accusa. Discende che la carcerazione preventiva per essere legittima postula l’indipendenza del giudice dal pubblico ministero, il che, come è noto, non si verifica stante il vincolo organico tra giudice e accusatore, che porta spesso all’appiattimento del primo sulle posizioni del secondo (si è scoperto di un giudice che “copia e incolla” la requisitoria del pubblico ministero), porta, cioè, all’impegno del giudice, laddove questi, per essere “terzo” deve essere neutrale rispetto alle ragioni delle parti.
In definitiva, se la disciplina della carcerazione preventiva e relativa prassi giudiziaria fossero più rispettose della Costituzione con riferimento ai precetti che più sopra ho indicato il problema dell’affollamento delle carceri sarebbe, se non eliminato, di molto ridimensionato. C’è però il problema della sicurezza pubblica: i detenuti liberati in anticipo, nonostante le imputazioni, possono produrre danno alla collettività, continuando a delinquere, e allarme sociale, cioè l’insicurezza nei cittadini, rendendo grama la loro vita. Che fare? È questo un aspetto, assai complesso e delicato, ma che esula dal tema che mi sono proposto di trattare; tuttavia, posso dire che il nostro ordinamento penale prevede anche le cosiddette misure di prevenzione (ad es. la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza), le quali possono essere applicate anche al di fuori della commissione di reato e presuppongono semplicemente la pericolosità sociale della persona.
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