APOLOGIA DEI FUOCHI D’ARTIFICIO

Dunque dottore ha capito? Caporale si nasce, non si diventa! A qualunque ceto essi appartengono, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso, hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi. Pensano tutti alla stessa maniera!”

Filastrocca di capodanno
fammi gli auguri per tutto l’anno:
voglio un gennaio col sole d’aprile,
un luglio fresco, un marzo gentile;
voglio un giorno senza sera,
voglio un mare senza bufera;
voglio un pane sempre fresco,
sul cipresso il fiore del pesco;
che siano amici il gatto e il cane,
che diano latte le fontane.
Se voglio troppo, non darmi niente,
dammi una faccia allegra solamente.

(Gianni Rodari)

I miei ricordi d’infanzia cominciano su un balcone. Piccolina, non soffrivo di vertigini e non avevo paura del vuoto. Potevo quindi tranquillamente passare molte ora seduta per terra, con le manine strette alle barre della ringhiera, a guardare la mia Napoli e fantasticare. Tra i gerani, il basilico e le piantine grasse sistemavo le bambole e raccontavo a me stessa le storie che inventavo. E quando, al tramonto, sentivo la sirena del postale che partiva per Palermo, mi scendeva una lacrimona e rassicuravo i miei pupazzi che noi, io e loro, non saremmo mai partiti come quei puntini neri con la valigia che avevano l’aria tanto triste. Loro sono restati ed ancora dormono negli scatoloni in alto, su un armadio che nessuno apre più.

Il pomeriggio del 31 di dicembre, puntualmente, mi arrivava lo sfratto. La tata con cenno imperioso intimava il rientro immediato all’interno. La postazione veniva occupata dai mio padre e gli “amici suoi” (in senso monicelliano) che dismessi i loro austeri panni di lavoro, in maniche di camicia si trasformavano in fuochisti scelti. Il camion si fermava sotto casa: molto discretamente, si procedeva al trasporto delle cassette misteriose. Sul balcone il gruppetto preparava la santabarbara. Con grande maestria, venivano attaccate al balcone in posizione di sparo le bottiglie vuote: erano le rampe di lancio per fischi, bengala ed altre meraviglie. La preparazione dell’artiglieria durava un’oretta, mentre dentro si cuocevano le lenticchie e l’immancabile cotechino e si bolliva il cavolfiore per la proverbiale “insalata di rinforzo.” (come erano belli i nomi delle dapi d’antàn: il cavolfiore rende forti, sappiatelo!) All’imbrunire, mentre le faccende domestiche fervevano, il gruppo si dileguava per indossare l’abito buono, che in quei tempi era sempre lo stesso, uno solo per le grandi occasioni. Sarebbero ricomparsi all’ora del cenone, apprettati, profumati e cosparsi di brillantina. La tempistica era fondamentale. La cena doveva terminare alle 23 e 35 per dar tempo al drappello di essere per tempo in assetto di sparo.

L’attesa fluttuava nell’aria tiepida della notte napoletana. Il silenzio calava sul golfo che puntualmente donava un’immagine tersa, come tirata a nuovo con tutte le lucine delle case e noi tutti pastorelli di un grande presepe sul mare. Noi piccoli non stavamo nella pelle. Avevamo la nostra scatola di stelline già scartocciata. Mio padre compunto aveva lo spumante a destra e l’orologio a sinistra.

…Meno 7,6,5,4,3,2,1… Il tappo saltava e tutti alzavano il calice tra il balcone e la stanza. Il tempo di sbaciucchiarsi e tracannare e gli “amici miei” si fiondavano di fuori. Anche se ben pasciuti dal cenone erano rapidissimi. Il dottore accendeva le micce alle bottiglie, il commercialista preparava i bengala, il capocantiere Gennarino passava a mio padre le granate che fiorivano di mille colori il cielo terso sul mare. Dai balconi vicini si accettava la sfida. “Buonasera Ingegnere!, auguri avvocato!”. E giù cascate di fuochi a ripetizione. Dal finestrone della cucina le donne erano intente ad altro rituale: avevano lavato alcune bottiglie e le avevano riempite d’acqua. Ad una ad una, nonne, zie, prozie versavano giù “le lacrime dell’anno vecchio” perchè il fuoco festoso potesse distruggerle e il neonato anno nuovo avesse gli occhi asciutti e sorridenti. Noi piccoli, tra le mani la cascata di stelline che scendevano crepitando e sparivano sul pavimento. Napoli, la mia, la nostra, la vostra Napoli impreziosita dai gioielli scintillanti del fuoco buono, palpitava sotto lo sguardo benevolo del suo Vesuvio silente.

Dicono che sia “inquinante” l’odore agre del fumo dei fuochi. Forse lo è, ma certamente assai meno di altri inquinamenti: quelli della coscienza, dell’ardore civile, del senso della costruzione e della libertà di pensiero. Questo che finalmente va via, è stato un anno da dimenticare: abbiamo consentito che venissero massacrati nostri amici, con i quali avevamo sanato antiche colpe e ferite, abbiamo abdicato alla nostra sovranità, proprio quando si festeggiava un genetliaco e stiamo perdendo definitivamente la nostra creatività, scanzonata, anarchica, accomodante e pertanto “ardete”: come un fuoco d’artificio che tinge di luce colorata il buio delle miserie dell’umana vita. Quale è la differenza tra noi e i poveri coreani persuasi dal pensiero unico a singhiozzare e strapparsi le vesti per la morte d’un dittatore?

L’originalità del pensiero italiano ha prodotto mirabilia, e non è mai stato un pensiero ossequiente e prostrato. Le lacrime sono nobili se a produrle è un nobile dolore. Il sangue si versa per nobili principi. Non ascolteremo messaggi prefabbricati. Abbiamo forza e voglia per inventare un’Italia nuova, tutti insieme. Prenderemo per mano i bambini, avremo le nostre lenticchie e il nostro pacco di stelline. Le accenderemo sorridendo e ci accorgeremo che ancora “siamo”. Lavoreremo per le nostre famiglie, per l’Italia: ne vale la pena e lo dobbiamo a quei tanti “amici miei” che la fecero grande. Dall’Italia siamo partiti. All’Italia dobbiamo tornare andando a recuperare tutte le idee che dormono in fondo ai cassetti del cuore e della mente, senza paura e senza accettare intimidazioni o costrizioni di nessun genere. Non tolleremo che un falso idolo ci dissolva in un pentolone indifferenziato di luoghi comuni e dogmi di cartastraccia. Coraggio, Italiane ed Italiani!, accendiamo i nostri campanili col fuoco ardente del nostro pensiero. Torniamo ad essere cio’ che fummo e d’incanto, sparirà la paura. Che il 2012 sia l’anno della rinascita. Buon capodanno, e ricordatelo, siamo uomini, non caporali.

Angela Piscitelli
Zona di frontiera, 30 Dicembre 2011


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