I VOLTI DEL POTERE

Ridotta all’osso la nozione di potere esprime una relazione tra soggetti in forza della quale la volontà di uno di essi s’impone a quella di un altro, che è costretto a sottostare: potere dell’uomo sull’uomo, dunque. Riferita allo Stato, la nozione di potere indica il dominio dei pochi (i governanti) sui tutti i residenti sul territorio dello Stato (i governati), cioè indica la capacità di alcuni soggetti di porre comandi cui è dovuta obbedienza da tutti, se necessario anche con la forza (la coercizione); infatti è connotato essenziale del potere, oltre il comando e l’obbedienza ad esso, la capacità d’imporre ad un soggetto una condotta (ad esempio di non rubare), e se non è possibile realizzare ciò che è comandato, la capacità d’infliggere una sanzione: una pena corporale o pecuniaria, oppure il risarcimento del danno provocato dalla disobbedienza, spesso sia l’una che l’altra.

Percepito in questi termini – e sono termini comunemente condivisi dalla cultura giuridico-politica – il potere può sembrare un male ingiusto, che incombe sugli uomini e attenta alle loro libertà e diritti. Non si può negare che qualche volta lo sia – in tal caso si ha la patologia non la fisiologia del potere, cioè ricorre l’abuso di potere -; ma il potere è soprattutto espressione di una necessità sociale e, quindi, è un fatto positivo, appunto il volto umano del potere, in quanto soddisfa una vitale esigenza della collettività, posto che senza un’attività regolatrice delle condotte umane, eventualmente da imporre con la coercizione (a volte è sufficiente la sola minaccia), il caos regnerebbe nella società e gli uomini si sbranerebbero. Un concetto questo che apparve nella sua nitida verità già agli albori della civiltà, quando gli uomini compresero che dovevano abbandonare la pratica “occhio per occhio, dente per dente” e risolvere altrimenti i loro conflitti.

Il termine moderno di tribunale risale appunto (millenni addietro) a quando i conflitti tra gli uomini venivano composti dal popolo, nella “tribù”. Senza dire, poi, che i moderni ordinamenti assegnano allo Stato, oltre quello che fin qui si è detto, il fine di promuovere il benessere della collettività (il welfare, che in alcuni Stati si spinge ad assicurare, almeno in teoria, la felicità dei suoi componenti). Anche il potere dei giudici è necessario e benefico, finalizzato, come è, a risolvere gli immancabili conflitti tra gli uomini, e ciò mediante una decisione che ha il connotato di una legge tra le parti confliggenti. In tal modo si evita quasi sempre il ricorso dei cittadini alla violenza. La Corte europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ammonisce spesso gli Stati aderenti alla Convenzione che il potere di amministrare giustizia ha un posto preminente nella società democratica, perché costituisce lo strumento indiscusso di effettiva tutela dei diritti umani, il che è il fine ultimo della giustizia. Tuttavia è assai comprensibile, e col conforto dell’esperienza di millenni, che il potere, qualunque potere, anche quello dei giudici, incuta timore e ciò per la possibilità dell’errore (anche i giudici in quanto uomini sono soggetti all’errore) ovvero dell’abuso di potere (anche l’abuso è un possibile evento di chi opera, e quindi anche del giudice). La storia è colma di errori e di abusi nell’operare umano, quindi d’ingiustizie, anche del potere giudiziario; e la ingiustizia della giustizia fa soffrire gli uomini più di qualsiasi altro errore o abuso commesso da altro potere. Invero il sentimento della giustizia alberga misteriosamente nell’animo umano, come scriveva un nostro grande filosofo cattolico, Giuseppe Capograssi. Ed in realtà, il sentimento della giustizia è così radicato negli uomini (ovviamente salve eccezioni) da far pensare che abbiano ragione quei cattolici i quali ritengono che si trova impresso nell’uomo all’atto della Creazione. Perciò, l’ingiustizia – il volto disumano del potere – produce sempre un grande turbamento, non solo in chi ne è vittima diretta, ma anche nell’intera collettività, che quasi sente l’ingiustizia come fatta a sé.

Massima espressione di abuso del potere è la tirannia, cioè il potere concentrato nelle mani di un uomo solo, o di pochissimi, senza possibilità di controllo alcuno o di rendiconto a chicchessia, potere cioè che non ha investitura popolare ed è perciò, oltre che insindacabile, irresponsabile: potere autocratico. Un tale tipo di potere può rinvenirsi anche all’interno del sistema democratico e si ha allorché uno dei poteri dello Stato ha, per certe sue connotazioni, di assolutezza e irresponsabilità, una così netta preminenza rispetto agli altri e nella società, da imporsi come poter super, tale da esercitare il predomino nelle istituzioni e nella società. Montesquieu, che è considerato il padre della separazione dei poteri dello Stato, ammoniva che bisogna congegnare i poteri in modo equilibrato, affinché l’uno possa costituire un limite all’altro (bisogna che il potere arresti il potere – diceva – per evitare che si abusi del potere, per evitare l’arbitrio).

Qui voglio dire qualcosa sulla patologia del potere nel nostro Paese (e lo dico con amarezza più che con rabbia): l’Italia è un arcipelago di poteri arbitrari, per il modo come sono configurati o per l’abuso che se ne fa, o per l’uno e l’altro. Abbiamo una Costituzione, deliberata dai rappresentanti del popolo nel 1947 che è restata sulla carta, quasi del tutto ignorata dalla classe politica che è stata sulla scena politica fino ad oggi; cioè abbiamo poteri che, per essere configurati in contrasto con la Costituzione non dovrebbero avere cittadinanza nell’ordinamento giuridico; ed abbiamo poteri che, pur essendo configurati perfettamente in conformità alla Costituzione, abusano delle facoltà o delle competenze che sono loro attribuite dall’ordinamento giuridico. Perché queste mie non restino gratuite affermazioni farò alcuni esempi.

Innanzitutto il potere giudiziario attuale, che senza dubbio è costituzionalmente illegittimo: la Costituzione aveva separato la giurisdizione dal potere esecutivo – di cui è organo il pubblico ministero -, ma la classe politica ha mantenuto l’ordine giudiziario fascista, comprensivo dei soggetti della giurisdizione (giudici) e soggetti che ha il compito di perseguire in giudizio i criminali (pubblici ministeri), che rientra nella funzione del potere esecutivo. Altro esempio: ciascuna Camera elegge fra i suoi componenti il Presidente e l’Ufficio di presidenza, il che postula un soggetto ed un Ufficio rappresentativi di tutta l’istituzione parlamentare, cioè al di sopra degli schieramenti politici esistenti nel Parlamento ma abbiamo, invece, un Presidente della Camera dei deputati che parteggia per un gruppo – dando addirittura vita ad un proprio un partito, di cui si atteggia a leader – in aperta contrapposizione ad un altro partito. Incontestabile esempio di abuso di potere. Quando la Costituzione prevede che il capo dello Stato in alcuni casi debba sentire i Presidenti di Camera e Senato presume che questi siano rappresentativi delle intere Assemblee, in quanto super partes. Anche la Corte costituzionale spesso fa abuso del proprio potere, la cui funzione è quella di accertare la corrispondenza della legge alla Costituzione, escluso ogni indagine nel merito della stessa. Questa precisazione non venne esplicitamente affermata in Costituzione sol perché la si ritenne superflua.

Il Presidente della Commissione dei 75, Meuccio Ruini, aveva osservato che la formulazione usata, secondo la quale “la Corte giudica della legittimità delle leggi” supera la proposta d’inserire “escluso ogni giudizio di merito”. Ma nell’esperienza concreta dell’operare della Corte quel che era stato escluso dalla porta è rientrato dalla finestra: il giudizio di merito si ritrova spesso nelle sentenze della Consulta, come altre volte mi è capitato di osservare. Il gioco è tanto semplice quanto efficace: nella maggioranza delle controversie sulla costituzionalità di una norma si fa riferimento, quale termine di paragone, al principio di uguaglianza, principio che, come è ormai noto, secondo la definizione del costituzionalista Livio Paladin “si risolve nel principio di giustificatezza delle leggi speciali o di eccezione (Paladin, “il principio di uguaglianza”, Milano 1965). Ma la tesi, in sé e per sé esatta, nasconde una insidia: il giudizio sulla giustificatezza è di competenza della Corte; e poiché le sentenze costituzionali non sono soggette ad impugnazione, discende che il giudizio di giustificatezza può dissimulare impunemente il giudizio di merito, cioè il giudizio politico.

Infine, viene in considerazione il possibile abuso del potere da parte del Presidente della Repubblica: ho citato recentemente l’abuso di Giorgio Napolitano nel nominare senatore a vita il professore bocconiano, Mario Monti, ancorché questi non abbia “illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico o letterario” come è prescritto dall’articolo 59, capoverso della Costituzione. Si è trattato di atto arbitrario, così come la successiva nomina dello stesso Monti a formare un Governo (non eletto dal popolo, quindi illegittimo). Io non entro nel merito di questi atti presidenziali (si dice finalizzati a salvare l’Italia dal default certo ed imminente, non c’era tempo per la consultazione elettorale): mi limito ad osservare che tutti i poteri sopra nominati sono esenti da responsabilità (quella del capo dello Stato, per alto tradimento o per attentato alla Costituzione, è puramente teorica), il che è un serio pericolo per il sistema democratico.

Marsilio
Zona di frontiera, 22 Dicembre 2011


Lascia un commento