PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA E SUOI LIMITI

E’ principio fondamentale comune alle moderne democrazie liberaldemocratiche l’uguaglianza tra gli uomini, sebbene non definita in termini perfettamente identici nelle varie Costituzioni.

Esso fu enunciato in Europa continentale, all’indomani della Rivoluzione francese, con la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, preceduta, però, in Inghilterra dal “Bill of rights” nel 1688 e negli Usa dalla “Dichiarazione d’indipendenza” nel 1776, che recitava: tutti gli uomini sono stati creati uguali. La Dichiarazione francese fu emanata il 26 agosto del 1789 ed enunciava: “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune (art.1)…..la legge deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca” (art.6). Il principio di uguaglianza fu proclamato, negli stessi termini, dalla “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, approvata a New York dall’Assemblea generale dell’Onu il 10 dicembre 1948; ma essa aveva solo valore simbolico, non cogente, come lo è, invece, una Convenzione (nota quella europea del 1950) ovvero un Patto internazionale (noto quello sui diritti civili e politici del 1966).

A seguire la Dichiarazione francese sono state proclamate le varie Costituzioni dell’Europa continentale. Per prima la Costituzione del Belgio del 7 febbraio 1831 che recita: “I belgi sono uguali davanti alla legge” (art.6) e: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti ai belgi deve essere assicurato senza discriminazioni” (art. 6-bis). Poi, la Costituzione svizzera del 1874 che recita: “Tutti gli svizzeri sono uguali innanzi alla legge… non vi ha sudditanza di sorta, non privilegio di luogo, di nascita, di famiglia o di persona, uomo e donna hanno uguali diritti” (art. 4, con emendamento del 1981). E’ seguita la Costituzione tedesca del 23 maggio 1949, la quale recita: “Tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge. Gli uomini e le donne sono equiparati nei loro diritti. Nessuno può essere danneggiato o favorito per il suo sesso, per la sua nascita, per la sua razza, per la sua lingua, per la sua nazionalità o provenienza, per la sua fede, per le sue opinioni religiose o politiche” (art.3). La Costituzione della Svezia del 27 febbraio 1974 (emendata con legge n. 871 del 1976) recita: “Il potere pubblico è esercitato con il rispetto dell’eguale valore di tutti gli uomini e della libertà e dignità di ogni singola persona”(art. 2). La Costituzione greca del 9 giugno 1975 recita: “Tutti i greci sono uguali davanti alla legge… i greci, uomini e donne, hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri”(art. 4). La Costituzione spagnola del 27 dicembre 1978 recita: “Gli spagnoli sono uguali davanti alla legge, senza alcuna discriminazione per motivi di nascita, razza, sesso, religione, opinione o qualunque altra condizione o circostanza personale o sociale”(art.14).

Ho riportato solo alcune delle Costituzioni liberaldemocratiche, a titolo di esempio di come il sentimento ed il valore dell’uguaglianza sia finalmente impresso nella cultura dell’uomo moderno, espressione massima dell’aspirazione alla giustizia. Aristotele affermava (cito a memoria e spero di non sbagliarmi) che la giustizia si può porre tanto come legalità che come uguaglianza.

Ma cosa si deve intendere per uguaglianza? La risposta non è semplice perché il relativo principio deve fare i conti con il mondo reale delle disuguaglianze tra gli uomini: una cosa è la proclamazione politica e giuridica, impegnativa per i legislatori (e per i sognatori), altro è far vivere il principio nei vari contesti storici e sociali, cioè nella realtà, ove regna assoluta la diversità e, quindi, la disuguaglianza, di uomini e cose (il geniale e l’ignorante, il ricco e il povero, il sano e l’ammalato, l’atleta e lo storpio, per fare solo qualche esempio). Mi piace a questo proposito ricordare Voltaire: “Ogni uomo, in cuor suo, ha diritto di credersi interamente uguale agli altri uomini: questo non vuol dire che il cuoco di un cardinale debba ordinare al suo padrone di preparargli il pranzo; ma il cuoco può dire: ‘Io sono un uomo come il mio padrone; io sono nato come lui, piangendo; egli morirà come me, fra le stesse angosce e le stesse cerimonie….” (Dizionario filosofico, voce Egalité, p. 187). Perciò, ad onta della solenne proclamazione delle Carte fondamentali che proclamano l’eguaglianza tra gli uomini, restano, a volte insuperabili, le disuguaglianze. Tuttavia, dal tempo di Voltaire l’umanità ha fatto passi da gigante nel ridurre – se non annullare – le disuguaglianze, sia nel regno della natura (ad esempio: la scolarizzazione e soprattutto i progressi nella sanità, che hanno del portentoso), sia in quello della politica e del diritto (ad esempio la partecipazione dei cittadini alla scelta dei parlamentari, ovvero all’amministrazione della giustizia). Ma, il cammino dell’uomo per giungere alla meta della giustizia e, quindi dell’uguaglianza, è ancora troppo lungo e troppo irto di difficoltà: ne erano pienamente consapevoli anche i Padri costituenti allorché, dopo aver enunciato il principio di uguaglianza (art. 3 primo comma), prescrissero: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana… ”(art. 3 secondo comma). Rispondendo, pertanto, alla domanda dianzi formulata, pare ragionevole affermare che il principio di uguaglianza costituisce la stella polare nel cammino dell’umanità e nelle scelte politiche, ma non è una stella solitaria, né una stella che brilla in assoluta più delle altre nel firmamento di ogni ordinamento giuridico, poiché esso deve, per necessità, coordinarsi agli altri principi e valori (altre stelle) che pure vivono nella società con più o meno intensità. Sicché se non è possibile eliminarle, le discriminazioni tra gli uomini debbono poggiare su fondamenti che le giustifichino. Un costituzionalista di grande livello, emerito Presidente della Corte costituzionale (Livio Paladin), scriveva (cito a memoria) che “il principio di uguaglianza si risolve in un imperativo di giustificatezza delle leggi speciali o di eccezione” (e, come ho detto in altra occasione, è la Corte Costituzionale competente a stabilire se l’imperativo è stato obbedito o trasgredito dal legislatore).

E il principio di uguaglianza può essere limitato, oltre che dalla logica della realtà, dalla stessa Costituzione che lo ha enunciato. Per esempio, il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni (art. 90), laddove, invece, è principio generale secondo cui tutti i soggetti che esercitano un pubblico ufficio sono responsabili in vario modo dei loro atti, essendo connotato essenziale del sistema democratico il rendere conto per l’esercizio del potere pubblico che, direttamente o indirettamente, si origina dal popolo. Oltre questo esempio si può citare quello dell’immunità parlamentare previsto come eccezione al principio di uguaglianza in quasi tutte le Costituzioni, come sopra ho ricordato: così la Costituzione belga all’art. 45: ”Nessun membro delle due Camere, durante la sessione, può essere perseguito o arrestato, senza l’autorizzazione della Camera di cui fa parte, salvo in caso di flagrante delitto”; negli stessi termini prevede la Costituzione francese (art. 26); lo stesso principio, sia pure espresso in termini diverso è sancito dall’art. 46 della Repubblica tedesca; idem per quella svedese (cap. IV, art.8), idem per la Grecia (art. 62), idem per la Spagna (art.71). Anche la Costituzione italiana era – nella sua versione originaria – allineata alla posizione dei suddetti Paesi europei (art.68, secondo comma): in Assemblea l’eccezione al principio di uguaglianza fu motivata con la necessità di impedire che un atto dell’autorità giudiziaria potesse essere ispirato da uno scopo politico e rendere impossibile a un deputato la libera esplicazione del suo mandato. Per dovere di completezza espositiva, è da ricordare che l’immunità parlamentare ha avuto autorevoli oppositori del calibro di Mortati. Certamente l’immunità non avrebbe ragione di essere in un contesto nel quale fosse assicurato l’equo equilibrio dei poteri e soprattutto la responsabilità della magistratura, il che allo stato non si verifica perché la magistratura ingloba l’organo dell’accusa che perviene al potere esecutivo (ed è quindi potere sovraccarico) ed è illimitatamente irresponsabile, facilmente portato all’arbitrio, ovvero alla deviazione politica della funzione giudiziaria. Ma, come è risaputo, durante l’infuriare della “rivoluzione” delle toghe, un Parlamento intimidito dagli avvisi di garanzia (che erano vere e proprie condanne senza processo) spediti nei confronti di non pochi dei suoi componenti (fu subito coniato e veicolato il termine “Parlamento degli inquisiti”), cancellò questa immunità, a maggioranza di due terzi richiesta per la revisione costituzionale e con la benedizione del Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, che Iddio lo abbia in gloria, quando sarà (legge costituzionale 29 ottobre 1993 n. 3). Questa importante modifica della Costituzione aveva una giustificazione indiscutibile: da una parte, la corruzione dei politici aveva raggiunto limiti preoccupanti e, dall’altra, il Parlamento faceva cattivo uso del suo potere di accordare o meno l’autorizzazione. E, però, si gettò il bambino con l’acqua sporca, con la conseguenza di un effetto perverso nella organizzazione dello Stato democratico: quello di consentire a meri e irresponsabili impiegati (pubblici ministeri) di sopraffare (o tentare di sopraffare) rappresentanti del popolo e di vanificare la sovranità popolare, con il pretesto di agire in osservanza del principio di obbligatorietà dell’azione penale (che sappiamo essere tutt’altro che effettivo); in realtà quei pubblici ministeri agiscono per fini politici (ieri come oggi tentano di provocare il ricambio della classe politica al potere contro la volontà popolare).

Si rifletta: un potere – quello giudiziario – che non è in regola con la Costituzione e con le regole della democrazia e che è esente da ogni controllo e responsabilità, oltretutto non neutrale rispetto alla lotta politica (qui rimando ai miei precedenti scritti) non ha titolo per inquisire e processare i rappresentanti del popolo, quand’anche colpevoli (spesso, però, riconosciuti innocenti) ; peraltro un Parlamento che difende ad oltranza i suoi membri contro l’azione giudiziaria, anche quando manchi il fumus persecutionis nei confronti di suoi membri, non è degno di rappresentare il popolo.

Il guaio è che la giustizia, per l’anomalia del suo assetto, ne esce con le ossa rotte e difficilmente si rialzerà, la politica, intrisa da corruttela, è allo sbando, incapace di svolgere degnamente il suo ruolo.

L’Italia non riesce perciò a diventare un Paese “normale”, allineata alle grandi democrazie. Non possiamo, non dobbiamo arrenderci a questo fato per noi disonorevole: l’imperativo categorico è reagire, ma non con la violenza, bensì con la cultura. Bisogna rendere edotta, con ogni mezzo lecito e possibile che il Paese è ingannato su temi essenziali quale quello sulla giustizia. E laddove nella classe dirigente non c’è l’inganno c’è incompetenza: inganno e incompetenza generano disinformazione nel popolo e non so quale di queste deficienze abbia la maggiore responsabilità.


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