DONDE VENIAMO, CHI SIAMO, DOVE ANDIAMO?

«Donde veniamo, chi siamo, dove andiamo?»: questa triplice interrogazione d’un personaggio di Balzac, che Gauguin pose come titolo ad un suo quadro, è divenuta un noioso, ampolloso luogo comune. Qui lo utilizzo solo per sottolineare e giustificare certe contraddizioni che è facile trovare nei miei pochi scritti. In essi, infatti, ho sostenuto a volte che noi Italiani abbiamo nel nostro carattere una inconfondibile “signorilità”; altre volte, invece, sottolineo la nostra incurabile pacchianeria. Prima descrivo uomini umani e degni; poi, malavitosi e perversi… Insomma: come sono questi benenedetti Italiani?

Per tentare di rispondere, mi occorre fare una premessa: si usa dire che parlare dei caratteri d’una collettività sia cosa teoricamente inconsistente e vacua -, ma anche quest’affermazione è vacua, perché nei fatti questi caratteri esistono. Attualmente viviamo in tempi assai retorici (la plebe è retorica) e ci piace usare termini pomposi per dire cose semplici. Per cui da un lato neghiamo il “carattere d’insieme” delle singole comunità umane, ma dall’altro parliamo con sussiego di “DNA”, che è dire la stessa stessissima cosa. Indovinala, grillo!, esclamerebbe Vilfredo Pareto.

Dunque: il carattere collettivo esiste; basta chiamarlo DNA, per evitare le proteste dei conformisti, bacchettoni politicamente corretti e compagni. Il dato “tradizione”, oggi finalmente ammesso nel convenzionale pensiero collettivo, è ancora un altro modo di dire la stessa cosa. Lo spagnolo Américo Castro (che secondo alcuni è stato il massimo filologo romanzo del ventesimo secolo) propone la similitudine dell’”abitare”. La tradizione è un valore immanente, generato dalla ripetizione: Castro introduce i due concetti di vivencia e di vividura: neologismi spagnoli che alla buona potremmo tradurre: “casa”, e “abitudine a viverci dentro”. La “vivencia” è un modo di vita ripetuto che diventa come una casa esistenziale, una “dimora” di vita; l’ abitudine di abitarci è una vividura.

Il nostro ambiente di casa lo sentiamo permanente, eterno -, ma poi se ne va, purtroppo, e noi con lui. Cosi’ la tradizione: che è eterna…, ma finché dura.
Tutto cio’ significa che la “natura umana” è si’ permanente, ma è lentamente trasformabile; questa continua modifica di cio’ che sembra immoto, permanente è quel che si usa chiamare “dialettica”: ovvero, per evitare complicazioni, storia.

Conclusione del nostro ragionamento: tutto, a questo mondo, è fatto di storia, dunque di “persistenze lentamente mutabili”. Da questo punto di vista, si puo’ scorgere chiaramente che i popoli europei sono tutti cronologicamente sfasati. E c’e n’è uno, il nostro, che è più sfasato degli altri. Noi Italiani, in compagnia dei Greci e di altre etnίe oggi semisommerse, siamo i più vecchi. Quando Orazio ideava i suoi meravigliosi pensieri in versi, tra colonne, archi e timpani, nel resto d’Europa ancora si abitava nei boschi, in villaggi inospiti, talora addirittura in umide caverne. In breve: senza nazionalismi cretini, ma per semplice aderenza ai fatti, dobbiamo asseverare di avere, nel nostro DNA, più o meno mille anni di tradizione, di stratificato carattere collettivo, più degli altri.

La nostra collettiva vecchiaia è il serbatoio di molte cose, buone e cattive, anche contradittorie tra di loro: la nostra signorilità è una di esse, cosi’ come la nostra molta pazienza, la nostra umanità – ma anche il nostro disordine fisico e morale, la nostra scarsa affidabilità, e qui mi fermo per amor di patria. Il succedersi delle vicende storiche ha aggiunto etnίe, usi e costumi disparati. Del resto, se consideriamo i singoli e i popoli dal punto di vista del tempo, vediamo che siamo tutti nessuno escluso fatti “a strati”; e questo incontestabile fatto spiega le contraddizioni che ci portiamo dietro. C’è compresenza di caratteri diversi, anche contrastanti o vistosamente dissonanti. E noi Italiani, che siamo vecchi, abbiamo più numerosi caratteri, e pertanto più “sedimentazioni” e contraddizioni degli altri. Ecco come si spiega il fatto, prima facie indecifrabile, della mescolanza di realtà orride come mafia, camorra, etc., e di virtù commoventi come quella di tendere la mano al naufrago magrebino, laddove altri rivieraschi mediterranei lo fanno tranquillamente andare a picco.

Bisogna rassegnarsi: la vita è complessa, e contradditorî siamo noi uomini, finché siamo vivi. Talora si tratta solo di “dosaggi”: ci sono popoli in cui certe caratteristiche sono più presenti che in altri. Presso noi Italiani, che abbiamo la stratificazione più lunga e pertanto più complessa e più facilmente contraddittoria, spesso la diversificazione dei caratteri collettivi è di una dissonanza “incredibile”. E’ lecito domandarsi se una buona educazione non sia quella che insegna al singolo di comprimere le componenti negative, ed esaltare quelle positive del proprio DNA. Certo che lo è; ma oggi “tutto è permesso”, e pertanto è ovvio che il negativo primeggi e dilaghi, a spese dei lati positivi. Gli educatori “alla Spock”, che sostengono che al al bambino tutto deve essere concesso per non danneggiare lo sviluppo della sua “personalità”, dicono una vuotaggine: la “personalità” non è un dato; ben al contrario, è lo storico insieme d’una serie di dati, anche cronologicamente sfasati, tra i quali è necessario scegliere: vogliamo noi che il bambino sviluppi i dati criminali della sua complessione psichica, o quelli umani, amichevoli? Ma tutto cio’ è talmente vero, che dà nel luogo comune. Ho parlato di queste faccende solo per giustificarmi: quando dico che noi Italiani abbiamo un fondo di inconfondibile finezza, cio’ purtroppo non nega le nostre tendenze spesso… mafiose, e peggio. Si tratta, ripeto, di scegliere, e di dare opera per aiutare il positivo a prevalere.

Come aiutarlo? E’ questo il problema grande, che ad occhi miopi sembra o insolubile, o secondario. Il problema dell’educazione è talmente ovvio e complesso, che qui sarebbe fatuo e pertanto inutile parlarne. Ma ci sono altre componenti importantissime. Ogni qual volta noi permettiamo che si deturpi un nostro monumento, che si demolisca un venerabile vestigio di cio’ che fummo, si obliteri la bellezza d’una città (penso con il cuore sanguinante a Napoli, città che ancora cinquant’anni fa era indicibilmente, commoventemente bella, e che ora…) -, ebbene ogni qual volta si permette un crimine del genere, noi consentiamo che prevalgano gli strati negativi della nostra “personalità storica”. E’ questo il drammatico messaggio che Rosario Assunto, lo straordinario filosofo col quale, nei suoi viaggi napoletani, visitavo certi luoghi dei Campi Flegrei e certe ville vesuviane, non si stancava di inviarci. Ed è ancora questo il messaggio che nei fatti ci ha trasmesso Gino Magnani, col suo splendido Museo di Mamiano. Questo, ancora, quello che ripete Vittorio Sgarbi, uno dei pochi invasati che ancora difenda la parte migliore delle nostre italiche anime.

Concludo: si’, la contraddizione c’è e deve esserci. Noi Italiani siamo ottimi e pessimi, poetici e volgari, signorili e indicibilmente pacchiani. Questo è il “mix” che il nostro annoso DNA ci ha affibbiato; questa, la nostra tradizione. Sono caratteri buoni e cattivi, che esistono in noi, che sono qui compresenti. Sta a noi, tutti insieme, tirar fuori dal magma, ancora una volta, cio’ che vale la pena di proteggere, di protrarre e di arricchire.
Facciamolo, carissimi amici Italiani!

Leonardo Cammarano, 13 giugno 2011
Ripreso da Zona di frontiera (Facebook) – zonadifrontiera.org (Sito Web)
13 giugno 2011


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