Perché sindacati e confindustria non vogliono abolire l’Irap?

In un articolo, pubblicato il 2 aprile u.s. dal Corriere della sera, a firma di Antonella Baccaro, si dà notizia di una prossima presentazione (si parla del 7 maggio) di una proposta formalizzata di riforma fiscale, messa a punto da Confindustria e, a quanto pare, condivisa in linea di massima da alcuni sindacati (CISL e UIL).

La riforma – che si ispirerebbe al principio ormai divenuto un leitmotiv ricorrente di trasferire, a pressione fiscale invariata, il carico tributario dalle persone alle cose – ricalcherebbe la proposta prospettata dal Presidente di Assonime, Luigi Abete, in una precedente intervista, pubblicata in data 19 gennaio u.s. sempre dal Corriere della Sera.

La proposta é in larga misura condivisibile, a meno tuttavia di alcuni punti non trascurabili. Sul fronte delle entrate ritengo condivisibile l’incremento dell’IVA, nei termini prospettati, mentre non mi sembra coerente l’introduzione di una tassazione, ancorché “moderata”, del patrimonio. Infatti l’adozione di una imposta patrimoniale caratterizza l’intera filosofia di un sistema fiscale, condizionandone contestualmente i criteri di tassazione del reddito; si tratta dunque di una decisione da assumere in via pregiudiziale ex ante e non di un provvedimento tampone, introdotto in modo surrettizio. Penso comunque che sarebbe limitativo se, contestualmente alla riforma fiscale, non si cogliesse l’occasione per una rigorosa e capillare rivisitazione dei capitoli di spesa programmata, a partire a titolo esemplificativo dall’allineamento degli standard di efficienza nella gestione della spesa sanitaria, fino ad arrivare ad un severo scrutinio della spesa per progetti di investimento, di cui, con congruo anticipo, devono essere accertati i presupposti di sostenibilità economico finanziaria. Interventi in tal senso potrebbero più che compensare il mancato gettito dell’imposta patrimoniale.

Il secondo punto di dissenso profondo riguarda il sistema di tassazione delle società, laddove si privilegia l’intervento sull’IRES (riduzione di aliquota dal 27,5% al 20%), rispetto a quello sul’IRAP. Per sciogliere in proposito ogni dubbio, il Presidente di Assonime, nella intervista citata al Corriere, ha affermato che nessuna modifica sostanziale va fatta all’IRAP che “dovrebbe essere mantenuta e confermata nella sua struttura fondamentale, pur se con qualche aggiustamento”.

Forse è opportuno ricordare che l’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) fu introdotta nel 1998 nell’ambito di una riforma che si proponeva di semplificare un sistema tributario delle società, imperniato su diverse tipologie di imposta: IRPEG (37%) e in taluni casi ILOR1 (16,2%), gravanti su una base imponibile pari al reddito ante imposte (RAI), a cui si aggiungeva una pletora di imposte (contributi sanitari, tassa sulla salute, imposta patrimoniale sulle imprese, tassa di concessione governativa sulla partita IVA, ICIAP), gravanti sul costo del lavoro. Grosso modo, il contributo al Servizio Sanitario Nazionale (SSN), associato a queste imposte, comunque deducibili dal reddito imponibile, ammontava al 5,5% del costo lordo del lavoro. L’IRAP, imposta a carattere regionale, che riproduceva in Italia la taxe professionnelle francese – recentemente eliminata da Sarkozy in quanto ritenuta penalizzante ai fini degli investimenti diretti esteri in Francia – venne estesa alla Pubblica Amministrazione, Banche, Assicurazioni e ai liberi professionisti.

La riforma, concepita in una logica di neutralità in termini di gettito fiscale complessivo, evidenziava elementi di criticità, che solo pochi tuttavia all’epoca misero in evidenza. Gli elementi di criticità più rilevanti, che tuttora sussistono, con riferimento all’IRAP riguardano: La non deducibilità dalla base imponibile degli interessi passivi con conseguente penalizzazione delle imprese indebitate; L’inclusione nella base imponibile del costo del lavoro che non solo penalizza imprese ad alta intensità di lavoro ma crea il paradosso, in caso di reddito ante imposte nullo o negativo, di obbligo di imposta anche in assenza di capacità contributiva; La penalizzazione per i contribuenti (professionisti e piccole imprese) non assoggettati nel precedente regime all’ILOR.

Di fatto l’IRAP, relativamente alla componente lavoro della base imponibile, più che un imposta rappresenta a tutti gli effetti un costo addizionale, peraltro non deducibile dall’imponibile IRES e per di più con palesi connotazioni di iniquità. A sostegno di quanto sopra affermato ho voluto esaminare la situazione di un campione ristretto di grandi imprese, che operano in diversi settori di attività e di cui sono disponibili i bilanci certificati: ENI, ENEL, TELECOM, BNL e FERROVIE DELLO STATO. L’anno di riferimento è il 2009; il campione prescelto, per la sola quota di imprese italiane, ha contribuito in termini di IRES e imposte sostitutive per 3.788 milioni di Euro (corrispondenti al 10% circa del gettito globale a livello nazionale pari a 37.844 milioni) ed in termini IRAP per 1.181 milioni (corrispondenti a circa il 3,2% del gettito globale a livello nazionale stimato pari a 36.800 milioni). Considerato il corrispondente risultato ante imposte pari a circa 12.500 milioni (stimato per l’intero campione sulla base delle aliquote fiscali teoriche applicabili alle singole imprese), risulta un rateo fiscale medio del 39,85%, con un intervallo tuttavia che va dal 37,94% di ENEL al 74,97% di FERROVIE DELLO STATO.

Applicando la proposta formulata da Assonime, il gettito complessivo IRES scenderebbe a 2.822 milioni mentre quello IRAP rimarrebbe invariato a 1.181 milioni. Il rateo fiscale medio scenderebbe al 32,11% ma con un intervallo tuttavia che si amplia dal 30,44% di ENEL al 72,77% di FERROVIE DELLO STATO. In altre parole: guadagnano in modo significativo le imprese più profittevoli, assai meno o affatto quelle più deboli. Integrando la proposta formulata dal Presidente di Assonime con una ipotesi di graduale abbattimento dell’IRAP (alternativo all’intervento sull’IRES), si prospettano soluzioni intermedie percorribili che, tenendo fermo un incremento massimo del gettito IVA di 40 miliardi, consentirebbero di attuare sia gli interventi individuati da Assonime (tranne la riduzione della IRES) sia un abbattimento dell’IRAP del 55-60%, rispetto agli attuali livelli.

Come misura transitoria iniziale, contestualmente all’abbattimento delle aliquote IRAP per i redditi d’impresa in ragione del 60%, occorrerebbe tuttavia bilanciare il provvedimento con un incremento dell’IRES di 2,34 punti (ovvero il 60% di 3,9%) o di differente entità, in proporzione alle aliquote IRAP applicabili alle diverse tipologie d’impresa. Rispetto alla situazione attuale le imprese comunque trarrebbero, a seguito del provvedimento, un beneficio fiscale corrispondente al 2,34% (o quant’altro a seconda della tipologia) del costo sostenuto per il personale e per gli interessi passivi, deducibili ai fini IRES. Applicando questo criterio al campione di imprese citate il gettito complessivo IRES salirebbe a 4.082 milioni mentre quello IRAP scenderebbe a 472 milioni. Il rateo fiscale medio risulterebbe del 36,53% con un intervallo tuttavia che andrebbe dal 31,5% di FERROVIE DELLO STATO al 35,22% di ENEL. In altre parole: verrebbe riallineata la fiscalità alla capacità contributiva delle imprese. In termini globali l’abbattimento del 60% dell’IRAP – al netto dei 4755 milioni di Euro di contribuzione della Pubblica Amministrazione, che rappresentano una partita di giro – costerebbe circa 19 miliardi di Euro. Ai fini della copertura, 12 miliardi sono quelli già individuati da Assonime per la riduzione dell’IRES, 3,2 deriverebbero dal citato incremento dell’IRES, contestuale all’abbattimento dell’IRAP, mente 3,8 miliardi potrebbero essere recuperati ad esempio attraverso una rigorosa verifica, che oggi non mi risulta avvenga, della reale esistenza dei requisiti di esonero dal pagamento dei tickets sanitari, con l’obiettivo di raggiungere almeno una soglia del 5% di copertura dei costi complessivi del SSN. Prevengo subito l’obiezione inconfutabile che quest’ultimo intervento, comunque opportuno, è invariante rispetto alle ipotesi alternative di abbattimento della fiscalità delle imprese.

Un’ultima considerazione: se è vero quanto afferma la Associazione Artigiani e Piccole Imprese (Cgia) di Mestre secondo cui il 78% del gettito IRAP sarebbe in capo a società di capitali, un abbattimento del 60% della suddetta imposta porterebbe alle società medesime un beneficio di circa 17,2 miliardi che, al netto dell’incremento contestuale di IRES di 3,2 miliardi, determinerebbe un risparmio netto di imposta di circa 14 miliardi contro i 12 miliardi ipotizzati da Assonime.

Ribadisco che queste valutazioni sono solo esemplificazioni da approfondire, posto che si condivida il giudizio di palese iniquità dell’IRAP, in termini di distribuzione del carico fiscale tra le imprese oltre che di eccessiva onerosità per persone fisiche e società di persone, ancorché a nessuno sfugga la rilevanza del contributo che questa imposta dà alla copertura dei costi del servizio sanitario nazionale (SSN).

Poiché tuttavia è impensabile che la Confindustria e soprattutto i sindacati non abbiano valutato le ipotesi sopra esposte, mi domando cosa é che mi sfugge; quale segreto si nasconde dietro questa rassegnata o inconfessabile attrazione per l’IRAP?

 

Andrea Verde, 22 aprile 2011
Zona di frontiera (Facebook) – zonadifrontiera.org (Sito Web)
22 aprile 2011


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