Il senso della festa

Avrebbe potuto finire sulle note di quel “Va pensiero” la festa dei 150 anni. Nessuna celebrazione posticcia e retorica può raccontare l’Italia più d’una platea che si alza in piedi e composta, canta piangendo.

Nel racconto degli scribacchini il soffio della commozione, il respiro della musica spariscono dentro una inutile e sguaiata polemica politica. Basta guardare il viso di Riccardo Muti, per capire che in nessun modo il maestro potrebbe essere derubricato tra i guitti rossastri scalmanati che dalle piazze accusano di antipatriottismo tutti gli altri. Loro, che hanno sacrificato la Patria all’ideologia, che per l’ideologia l’hanno sempre negata e rinnegata.

Muti parla, con il linguaggio universale delle note, a ciascuno di noi. Per dirci che L’Italia è solo e soltanto la sua cultura, come ogni Nazione. E la vera battaglia politica nella quale occorre arruolarsi, con tutte le armi, e combattere insieme è la ricostruzione di un’unità culturale, fatta di tante culture straordinarie che nel tempo costruirono, per noi cinici incolti del terzo millennio, ”la Patria ‘si bella è perduta” della quale si continua a far scempio.

Siamo abbastanza vecchi per aver vissuto il centenario: in quel tempo in cui il ”va pensiero” lo imparavamo a scuola nell’ora di canto con l’Inno di Mameli e i nostri nonni avevano a mente le canzoni garibaldine. Erano stati cittadini del Regno delle due Sicilie, sulla bocca fioriva il dialetto napoletano pieno di francesismi eppure cantavano sopra le nostre culle:

“Si scopron le tombe, si levano i morti
i martiri nostri son tutti risorti!
Le spade nel pugno, gli allori alle chiome,
la fiamma ed il nome d’Italia nel cor:
corriamo, corriamo! Sù, giovani schiere,
sù al vento per tutto le nostre bandiere
Sù tutti col ferro, sù tutti col foco,
sù tutti col nome d’Italia nel cor”.

Perché i nonni di ogni regione non conoscevano la retorica. Che il genius loci italiano avesse i volti e la voce di mille città era per loro motivo di vanto, non di contrapposizione. Di qualche eccesso, tollerato si sorrideva. Insomma, erano italiani perché avevano memoria.

Mancano soltanto tre giorni al fatidico 17 e finora abbiamo sentito ogni sorta di castroneria: coccarde, souvenirs, fumetti, io festeggio, tu non festeggi, egli forse festeggerà. L’un contro l’altro armati e ben decisi, a nostro avviso, a dare il colpo di grazia alla Patria smemorata.

La nostra identità, che solo memoria, fierezza e conservazione possono tenere in vita è stata calpestata da tutti, negli ultimi cinquant’anni: da chi l’ha accantonata per praticismi miopi, chi l’ha saccheggiata per proprio tornaconto elettorale, e chi l’ha nascosta vergognandosene inalberando altri vessilli. Ed in questo ognuno si porta dietro la sua parte di colpa. Bisogna “pentirsi” mutare pensiero e ricostruire ciò che stato distrutto nella coscienza degli italiani tutti.

I tagli alla cultura sono nella vita di ognuno di noi, prima di essere nei capitoli di spesa: la cultura è stata “rimossa” per far posto al bisogno globale di futilità, al finto benessere, alla creazione di bisogni meschini e di nemici inesistenti. Abbiamo saccheggiato la nostra stessa vita ed ora, inebetiti ci becchiamo a sangue, come i polli di Renzo, per impadronirci di un etichetta di “patriota” da incollare magari su un barattolo di olive, o sulla giacca, o sul logo d’un partito.

Certo, una Nazione non si fa in un giorno e non la si fa senza soffrire. Certo, ci sono stati abusi, soprusi, errori, ci sono differenze, scontenti, torti e ragioni, pigri e lavoratori, benintenzionati e malvagi. Se ciò che si vede è ciò che è, allora la “Patria si bella è perduta”. Se invece tutti insieme ci ricordiamo di esistere, se dal cassetto più polveroso della nostra coscienza tireremo fuori sgomenta e dolente, ma viva, l’Italia del centenario, allora sarà festa. E non sarà stata una banale operazione commerciale a profitto dei banchieri, la fabbricazione delle coccarde tricolori. Ma dobbiamo essere noi, la gente comune, se abbiamo ancora il groppo in gola a dirci “italiani” ad esigere prima a noi stessi, e poi a tutti gli altri il rispetto e la conservazione della nostra memoria culturale, dei nostri luoghi, della nostra musica, dei nostri gonfaloni ubertosi di bellezze d’arte, delle nostre sconosciute e silenti biblioteche. Gli stranieri lo sanno. Noi lo abbiamo dimenticato. Dimenticanza colpevole dalla quale nessuno – e sottolineo nessuno – è esente. Ed è per questo che crediamo che è dal cuore che bisogna ricominciare per essere.

Il canto d’una platea, quelle lacrime furtive non ostentate, scaturite dal tocco d’un musicista-rabdomante siano il nutrimento necessario per rendere fertile il suolo di un’Italia nuova. La stella luminosa dell’arte irrompe nelle macerie esistenziali indicandoci una strada. Si chiama memoria. E non porta rancore ai suoi figli, come ogni buona madre. Se solo la ascoltassimo, non saremmo tanto maledettamente infelici, rancorosi, spenti. E sarebbe una grande, grandissima festa.

Angela Piscitelli, 14 marzo 2011

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