DETERMINISMO O CAOS?

In una breve intervista, pubblicata dal Corriere della Sera del 28 marzo, il Premio Nobel Carlo Rubbia, nell’affrontare il tema della sicurezza dei reattori nucleari dopo Fukushima, avrebbe affermato che la reazione “dell’intellighenzia sarà di fare piccole modifiche, di mettere le pompe più in alto per proteggerle dallo tsunami. Ma il problema è diverso: le centrali di oggi si fondano su modelli probabilistici. I quali dicono che ci vorrebbero centomila reattori per avere un incidente grave all’anno. Invece non è così perche la concatenazione degli eventi l’incidente lo fa succedere. Occorre passare a un modello deterministico dove l’incidente non può accadere”.

In chiave filosofica, questo ritorno ad una visione meccanicistica del’universo, che ci riporta alle leggi della dinamica Galileiana e Newtoniana, equivale a ripudiare secoli di evoluzione del pensiero filosofico e scientifico, secoli nel corso dei quali ai modelli deterministici si è sentita la necessità di affiancare modelli stocastici, ovvero probabilistici, per imbrigliare per quanto possibile la complessità dei fenomeni che governano la vita dell’universo. Disgraziatamente i fenomeni in questione (dalla meteorologia al moto turbolento dei fluidi) non sono inquadrabili in sistemi di equazioni lineari e questo preclude una applicazione estensiva dei metodi predittivi.

In verità temo che l’esigenza divulgativa abbia falsato il pensiero del Prof. Rubbia: in forma giornalistica sintetica lo scienziato richiama le modifiche recenti apportate alla regolamentazione della International Atomic Energy Agency (IAEA) in tema di analisi di sicurezza dei reattori nucleari; dette modifiche, nel rendere più severi i criteri di analisi, introducono, accanto alla metodologia di analisi probabilistica finora impiegata (IAEA PSA), una metodologia definita deterministica (IAEA DSA). Quest’ultima tuttavia non garantisce un rischio zero ma limita la soglia di rischio entro livelli ritenuti accettabili (si veda il par. 3.15 della DSA, ove si afferma: Basic acceptance criteria are usually defined as limits and conditions set by a regulatory body, and their purpose is to ensure the achievement of an adequate level of safety).

L’approccio in linea di principio dunque non è diverso da quello usualmente impiegato per valutare i rischi connessi allo svolgimento delle attività umane; malgrado lo sforzo continuo di miglioramento degli standard di sicurezza, grazie soprattutto ai benefici indotti dal progresso tecnologico, siamo ben lungi dal conseguimento di rischio zero, che le statistiche a mala pena attribuiscono allo stare a letto in zone non soggette a fenomeni tellurici. E’ opinione largamente condivisa, in particolare nella cultura anglosassone, che la sicurezza, nello svolgimento delle attività umane, sia da intendersi come contenimento del rischio entro livelli ritenuti comunemente accettabili, quale contropartita del benessere indotto dal progresso tecnologico e scientifico.

Per evitare fraintendimenti va subito detto che quanto accaduto a Fukushima va fuori dai limiti del rischio accettabile, non potendosi invocare la imprevedibilità dell’evento, e dunque, per onestà intellettuale, occorre ammettere che si è trattato oltre che di una drammatica sciagura umana anche di un grave insuccesso tecnologico, da cui trarre una lezione esemplare. Nella fattispecie è risultata evidente l’insufficienza della analisi dei rischi – condotta in sede di approvazione del progetto – sotto almeno due profili: la scelta di un sito in un’area soggetta agli effetti diretti e indiretti (tsunami) di un rischio sismico elevatissimo nonché l’insufficiente grado di ridondanza del circuito di raffreddamento del reattore, in presenza degli effetti collaterali dell’evento. A ciò si aggiunga la inadeguatezza dei piani di emergenza. Da questo tuttavia a saltare a piè pari ad una prospettiva ideale di un mondo a rischio zero, all’ombra della riscoperta di modelli neo-deterministici, ce ne corre.

Data l’autorevolezza della personalità in questione ed anche un certo senso di autoironia che talora la contraddistingue, non escluderei – sempre che le affermazioni attribuitegli siano attendibili – che abbia inteso lanciare una provocazione per verificare chi abboccava all’amo. In ogni modo, considerata la delicatezza del momento, da un opinion leader ci saremmo attesi maggiore cautela, tenuto conto del fatto che è in gioco la sopravvivenza di una fonte energetica importante, quale è il nucleare, su cui si basa la produzione di quasi un terzo dell’energia elettrica europea.

Certamente il seguito dell’intervista – a parte lo sviluppo delle centrali al torio che mi auguro possano affermarsi superando con successo la fase di sperimentazione prototipale e quella di prima industrializzazione – non è più tranquillizzante della premessa. Ho raccolto in proposito il parere di esperti del settore che preferiscono restare in ombra. Sempre nella logica di ritorno al passato viene proposta la tecnologia di decomposizione termica del metano per produrre il vettore energetico pulito per eccellenza, cioè l’idrogeno, con sottoproduzione di carbonio da utilizzare nell’industria plastica.

Si tratta della tecnologia in uso da quasi un secolo per la produzione di nero fumo (carbon black), impiegato per il 70% come pigmento riempitivo di mescole di gomme stirene-butadiene (SBR), destinate alla fabbricazione di pneumatici, e, in misura ridotta, nell’industria plastica. La produzione mondiale, commisurata ai suddetti impieghi, ammonta a circa 8 milioni di tonnellate all’anno; qualora il fattore trainante divenisse quello di produrre il vettore energetico idrogeno, la sottoproduzione di nero fumo si incrementerebbe di parecchi ordini di grandezza, eccedendo largamente le possibilità di impiego e determinando quindi seri problemi di smaltimento, resi peraltro problematici dalla sospetta cancerogenicità del prodotto. Sul fronte dei carburanti alternativi viene citata l’esperienza brasiliana dell’etanolo, che tuttavia è stata resa possibile in un Paese che dispone di piantagioni di canna da zucchero e di un clima mite in grado di evitare formazione di ghiaccio al carburatore. Spero non si voglia estendere il concetto ad altri biocarburanti la cui imprevidente incentivazione ha determinato l’incremento dei prezzi di alcuni prodotti agricoli di interesse vitale, scatenando la rivolta del pane.

Quanto ai clarati, rappresentano certamente una risorsa importante da valutare di cui tuttavia al momento non è possibile fare previsioni quantitative ed economiche attendibili. Quando le guerre andavano ancora di moda circolava il detto secondo cui la guerra é cosa troppo seria per lasciarla in mano ai generali; parafrasando il motto, con il dovuto rispetto per i singoli, verrebbe fatto di dire che la ricerca applicata è cosa troppo seria per lasciarla alla sola fantasia inventiva dei ricercatori, senza un indirizzo di economisti e manager in grado di mantenerla entro i sentieri angusti della sostenibilità economica e del realismo.

 

Andrea Verde, 19 aprile 2011
Zona di frontiera (Facebook) – zonadifrontiera.org (Sito Web)


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