CARLO SANTILLO

Dà vita a dei buoni esempi: sarai esentato dallo scrivere delle buone regole.
(Pitagora)

Al lago d’Averno si arriva da una stretta strada alberata, un braccio senza uscita di quel rutilante chiassoso labirinto dei Campi Flegrei. Anche se ci sono i ristoranti a fare il verso alla storia – da Caronte si mangia bene, è certo – la luce bianca, il fruscio delle canne e il colore perduto dell’acqua dove riflettendosi ogni cosa si fa scura, avvertono il viaggiatore audace: la soglia del tempo perduto è lì. A destra, verso la luce, un tempio solitario condannato per chi sa quale incantamento, a contemplare il suo doppio tremulo nel lago. A sinistra, in ombra tra la vegetazione incolta e spazzatura, un vecchio cartello: Antro della Sibilla.

Lì c’era Carlo Santillo. Misuro il passare inesorabile degli anni perché nella mia felice giovinezza a Napoli, di uomini come Santillo ce n’erano ad ogni crocevia. Il popolo che respinse con fierezza e lealtà gli idolatri della dea ragione e che, dopo i Re Lazzaroni, che tutto avevano compreso, non ebbe mai un reggente sapiente, aveva tanti figli che per amore custodivano le memorie, adottavano i luoghi e raccontavano a chiunque avesse voglia di ascoltare. È l’immensa tradizione classica della nostra civiltà. Non può più esserci un Dante, perché non c’è Virgilio: non esistono mercenari nè sindacalisti della poesia.

Carlo Santillo per amore, e per quarant’anni, ci ha accompagnati nel mistero dell’Antro, il latino sulle labbra Spelunca alta fuit, vastoque immanis hiatu. Cos’è la storia, senza il racconto? E cos’è un luogo senza una storia? Il tunnel romano è solo un esempio della mirabile ingegneristica dei nostri avi, e la Sibilla era altrove, ma fu la sua dimora ideale prima della scoperta della grotta di Cuma e dunque, è anche lì.

Abbandonato come tanti luoghi dello spirito di questa ardente terra derelitta, parlava con la voce di Carlo Santillo, e se c’era un’urgenza, una riparazione essenziale, lui provvedeva. Sono passate tante stagioni. Con ogni tempo, Santillo era al suo posto, ad accogliere comitive da tutto il mondo. Un volontario sognatore. Ma ora è invecchiato anche lui, come le “sue” pietre: ottantacinque anni ed è umido laggiù. Ha riposto il bastone ed è rientrato a casa. L’antro è chiuso. “Caronte” è malato. Deve arrendersi al generale inverno della vita.

Immaginate il seguito, ma provate a chiudere gli occhi e vedere con il cuore uno specchio d’acqua lievemente inquieta, una grotta ed un vecchio signore elegantemente modesto che vi parla. Il posto è privato , la sovrintendenza dunque se ne strafotte. Sarà dimenticato quando il vecchio cartello marcirà, così come sarà dimenticato Santillo, dall’ingrata Patria. La Sibilla piange e piangiamo anche noi. Anche lassù, sull’Acropoli, la sua casa è chiusa. Vagherà di notte per i Campi Ardenti alla ricerca del vecchio amico sofferente. Ad uno ad uno i luoghi ammutoliscono. Chi prova a risuscitarli viene scoraggiato o tacitato. Stato canaglia che prende a calci nel sedere i suoi figli migliori, e manda in malora la nostra eredità.

Presidente Napolitano, Carlo Santillo è quasi un suo coetaneo. Mi rivolgo a Lei – con poca speranza invero. Ci sarà andato una volta, all’Averno? Ci vada, in incognito a respirar da solo l’aria profumata di vaticini sospesi. Può darsi che capisca cos’era l’Europa e cosa eravamo noi prima che l’oscurantismo del terzo millennio ci riducesse a poltiglia indifferenziata di retorica.

Subito nomini Santillo Cavaliere di Gran Croce, come lo fu Mimi Rea, l’ultimo dei meritevoli, quaggiù. Lo porti nelle scuole, quando starà meglio, a spiegare la storia ai nostri ragazzi. La nostra Patria ha bisogno di modelli, e di modelli tanto si parla a vanvera. Non sono quelli delle sfilate, né quelli dell’Agenzia delle Entrate, né tanto meno quelli di sviluppo che fabbricano i tecnocrati.

Angela Piscitelli
Zona di frontiera, 29 Settembre 2014


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