TRIBUNALE DEL POPOLO

Se dovessimo giudicare l’attuale magistratura diremmo, in primo luogo, che è colpevole di aver veicolato la mistificatoria vulgata secondo cui essa è in regola con la Costituzione per quanto riguarda i suoi componenti, le prerogative di cui gode e per lo status indipendente del pubblico ministero. Invece, dagli scripta si ricava, a ben leggere, che la Costituzione ha stabilito che la giustizia è amministrata in nome del popolo (art. 101), da soggetti istituiti magistrati (art. 102), i quali formano l’«ordine della magistratura», con prerogative di autonomia e indipendenza da ogni altro potere (art. 104).

Il pubblico ministero – ufficio pubblico che veglia all’osservanza delle leggi e alla corretta amministrazione della giustizia e che promuove la repressione dei reati, tutte funzioni rientranti nella competenza del potere esecutivo – non fu ritenuto magistrato, tuttavia portatore di garanzie, la cui individuazione deve essere stabilita dal legislatore (art. 107, comma quarto).

Dunque la Costituzione separò chi deve esercitare l’azione penale, appunto il pubblico ministero, e chi deve giudicarne la fondatezza, appunto il giudice: due ordinamenti distinti. Altro che separazione di carriere!

In conclusione: la Costituzione attuò il principio della divisione dei poteri statali, principio che, da Montesquieu in poi, ha costituito uno dei fondamenti del costituzionalismo moderno occidentale e dello Stato di diritto (mantenne bensì il vecchio ordinamento giudiziario, ma solo fino al nuovo ordinamento, come da VII disposizione transitoria).

Son passati oltre sessant’anni! ma il nuovo ordinamento giudiziario conforme a Costituzione non ha visto la luce, salve alcune modifiche che, però, non hanno minimamente intaccato l’impianto di fondo del vecchio ordinamento: è stato invece rinviato alle calende greche l’«ordine della magistratura», previsto dall’art. 104, ed è rimasto in vigore l’«ordine giudiziario» fascista.

Il paradosso è che ci ammoniscono a non delegittimare questa magistratura (costituzionalmente illegittima), come fosse sacra. A questo punto è necessario chiedersi a chi deve essere addebitato il delitto di lesa Costituzione, cioè a chi bisogna far risalire la omessa emanazione dell’ordinamento giudiziario conforme alla disciplina costituzionale.

L’art. 108 della Costituzione prevede che “Le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge”: dunque, la responsabilità è del Parlamento (anche in caso di delega al Governo, posto che qualsiasi delega deve contenere principi e criteri direttivi, come prescrive l’art. 76 Cost.). Sennonché va osservato: quando il legislatore deve decretare su materie incandescenti, che coinvolgono interessi rilevanti della società o di forze politiche – come può dirsi per la giustizia – la legge risente, e non potrebbe essere diversamente, della pressione di lobby e di corporazioni (in primis quella dei magistrati), ma, soprattutto, nel nostro caso, risente, e pesantemente, della divaricazione ideologica esistente tra le forze dello schieramento politico, che fa del nostro un Paese unico.

E così – limitando l’esame all’assetto giudiziario – si registra la profonda differenza sussistente tra le forze politiche, differenza che è il riflesso della spaccatura politico-ideologica del Paese in forza dell’incombere e persistere sulla scena politica di un partito anti-sistema (il partito comunista, nato nel 1922 , attratto dalla rivoluzione sovietica del 1917).

Reminiscenza storica che si rende oggi necessaria per comprendere appieno le ragioni della mancata attuazione della Costituzione in ordine al potere giudiziario e che soprattutto, mostra le ragioni che rende scettici in ordine ad una riforma della giustizia al passo delle analoghe istituzioni europee. L’utopia comunista non esiste più, ma permangono i comunisti.

L’esperienza registrata dalla caduta del fascismo ai giorni nostri autorizza un giudizio negativo sui comunisti, nel senso che se è vero che i medesimi rinunziarono alla rivoluzione armata (le armi erano pronte, sebbene seppellite) per realizzare in Italia una democrazia popolare (il socialismo di tipo sovietico), non è men vero che non rinunziarono all’obbiettivo, seppure con altri mezzi, come suggerito da Gramsci, pur nel rispetto formale degli strumenti della democrazia borghese, alias liberale.

Non è certo, questo, il luogo per ricordare il lungo percorso dei comunisti all’interno delle istituzioni repubblicane, basta coglierne i momenti salienti con riferimento all’esclusivo tema della giustizia.

Palmiro Togliatti, il prestigioso leader comunista italiano, rientrato in Italia nell’aprile del 1943 dal freddo moscovita, aveva ben chiaro il da farsi per realizzare la via italiana al socialismo. Nominato Ministro di giustizia, prima nel Governo Parri (1945) poi nel Governo De Gasperi (1945-1946), fu autore delle “Guarentigie della magistratura”: le mani rosse sulla giustizia; tra le quali la sottrazione delle funzioni di pubblico ministero alla direzione ministeriale. Fu detta la “via italiana al pubblico ministero” appunto perché non si aveva l’eguale in nessuna parte del mondo; fuorché, ovviamente, nel regime sovietico, nel quale la prokuratura era indipendente da tutti tranne che dal partito comunista. E fu anche lo strumento necessario per la via italiana al socialismo: una magistratura con il compito di spianare la strada ai comunisti. Il fascismo dovette istituire all’uopo il tribunale speciale per disfarsi dei nemici, ai comunisti è bastato allearsi coi i magistrati.

All’Assemblea costituente, venendo in esame le garanzie per il pubblico ministero (che il Progetto di Costituzione, redatto dalla Commissione dei 75, voleva fossero le stesse previste dei magistrati), si decise, però, per il rinvio al legislatore in attesa che il nuovo modello di processo (che i Costituenti ritenevano dovesse essere di stampo accusatorio) ne chiarisse lo status.

Come è noto, soltanto con il codice di procedura penale del 1988 il pubblico ministero venne configurato quale “parte” e, quindi, nettamente distinto dal giudice, “in modo da porre fine al fenomeno di reciproca trasmissione di caratteri tra i due organi pubblici del processo che costituisce una delle note di fondo più negative del sistema processuale penale vigente” (Relazione).

Ma qui intervenne un altro colpo di mano (dopo quello di Togliatti del 1946): la Commissione ministeriale, che aveva il compito di adeguare l’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale non lo adeguò affatto e quindi il pubblico ministero “parte”, restò unito organicamente al giudice superpartes. La Commissione era composta nella stragrande maggioranza da magistrati, i quali legiferarono nell’interesse della loro corporazione all’insegna de “l’unione fa la forza”.

Intervennero di lì a poco sia l’indiretto giudizio negativo del popolo sul funzionamento della giustizia (referendum del novembre 1987), sia la caduta del muro di Berlino (1989) che conclamò la fine ingloriosa del comunismo sovietico. Fu l’occasione e la ragione per le quali comunisti e magistratura strinsero un pactum sceleris per la difesa dei loro reciproci interessi: i comunisti senza rinnegare nulla della loro ideologia e della loro prassi, avevano necessità di liberarsi dei socialisti; i magistrati cercavano l’appoggio di una forza politica per mantenere il loro strapotere (la rivoluzione delle toghe va letta in questa chiave: la corruzione della classe politica esisteva indisturbata da decenni), così come va interpretato l’appoggio comunista a favore delle richieste dei magistrati. Tu dai una cosa a me, io do una cosa a te. La sconfitta di Craxi fu una resa ai pubblici ministeri milanesi, che dette ai comunisti la possibilità di riproporsi per la conquista del potere, presentatisi, seppure orfani dell’ideologia (il mito del mondo nuovo), come unica forza dalle mani pulite.

Vent’anni dopo la messa in scena si è ripetuta: al posto di Craxi c’è Berlusconi, che alla fine è stato decapitato e con disonore. Che importa se la giustizia è andata a ramengo, che importa se molti magistrati hanno prostituito la funzione giudiziaria: il fine giustifica i mezzi.

Sull’Italia oggi spira un forte vento del peggiore statalismo. Sopra tutto la menzogna, che proletarizza la classe media a beneficio della nomenclatura rossa. Tutti più poveri in nome dell’eguaglianza: tasse, sempre tasse, fortissimamente tasse.

Marsilio
Zona di frontiera, 18 Dicembre 2013


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