CENERE SUL MARE

«Mammà! Gli occhiali!», eccoli, finalmente, gli occhiali. «Eugenia, sempre tenendosi gli occhiali con le mani, andò fino al portone, per guardare fuori, nel vicolo della Cupa. Le gambe le tremavano, le girava la testa, e non provava più nessuna gioia». Un’impressione completamente diversa da quella provata qualche giorno prima davanti all’occhialaio di via Roma, un’impressione terribile le fece il mondo, che poi era un cortile pieno di balconi e di carretti con la verdura e «gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno all’Addolorata; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione».
(A.M.Ortese)

Napoli l’illustre le cui vie percorsi più di un anno, d’Italia gloria e ancor del mondo lustro ché di quante città in sé racchiude non v’è nessuna che così l’onori. Benigna nella pace e dura in guerra, madre di nobiltade e d’abbondanza dai campi elisi e dagli ameni colli.
(Miguel de Cervantes)

La Riviera di Chiaia è mia. Posso dirlo con certezza perché è lì che io fui, e resto, una bambina sognante con il nasino tra le sbarre del balcone. Un sesto piano con le finestre a nastro come un grande bastimento, la voce del mare di sera, le lucine delle paranze che si confondevano alle stelle e l’odore di zolfo dell’acqua ferragna del Chiatamone che si beveva pure a piccole dosi – precetto delle antiche farmacopee a chilometro zero -, per poi contrastarne gli effetti salvifici con un memorabile “tarallo cavero” alla sugna. Sono nata sulla spiaggia, come tanti Napoletani privilegiati. Gli altri, quelli delle tenebre degli antichi cavoni, al mio tempo il mare nemmeno lo conoscevano. Del mirabolante paesaggio originario della Chiaja ebbi conto, prima di ritrovarlo tra le scartoffie amate e nelle biblioteche, nel racconto dei nonni. Prima dell’apocalisse del “miracolo economico” anche tutto ciò che era già scomparso, sembrava essere al suo posto: l’isola di San Leonardo con il suo Monastero, le sorgenti, gli acquaioli, le animelle del Purgatorio, le voci. Non c’era angolo, squarcio, cappella che non fossero magicamente evocati nelle nostre domenicali passeggiate, dopo la messa. Ricordo, come fosse ieri le chiesuole stipate di fedeli, lungo la Riviera, un vegliardo celebrante e la sua genuflessione incerta e radiosa al Sacramento. Napoli era passione e destino, vita e morte, acqua e fuoco, peccato e redenzione, sublime e grottesco.

Lungo la Chiaja passavano poche automobili, c’erano le carrozzelle e talora l’orizzonte si saturava pian piano d’una musica triste e trionfale che tacitava il chiasso e dalla Vittoria appariva, come da una lesione aperta nella parete del tempo, il tiro ad otto di Bellomunno con i cavalli normanni piumati al passo ed il cocchiere col cilindro. “Cos’è, nonna?” – “Vengono a prendere un Principe”. E io sapevo pure chi era, il Principe: quel Signore bislacco, per nulla rassicurante che aveva commissionato al suo scultore il Cristo velato che mi aveva mostrato perché non dimenticassi mai la faccia di Gesù sofferente. La carrozza era sua – diceva la guida – e poteva andare anche in acqua.

A Bagnoli si passava col naso in su per osservare il comignolo dell’altoforno; “Il progresso”, che però nascondeva il mare sottraendolo ai bimbi, legittimi proprietari di castelli di sabbia e di conchiglie. Progresso maledetto forse da Poseidone, quel fazzoletto di terra straordinario che non ebbe mai pace e che solo in parte e da poco tempo pareva riscattato al suo derelitto destino.

“Il mare non bagna Napoli”. Ormai è da tanto che nessuno prova a inforcare gli occhiali di Eugenia per ritrarsi inorridito di fronte alla verità. Violenza sui figli e violenza dei figli: nessuno può progettare nulla senza avere memoria. Da quanto tempo i nonni giocano a burraco e dimenticano di portare i bimbi a guardare il mare? E Napoli, la meravigliosa, fulgida e disperante Napoli, perché non ha più un poeta che sappia raccontarla per aiutarci a capire?

Le stanze sventrate del civico 71, come in un tragico presepio, lo scheletro fumante della Città della Scienza non sono macabri souvenirs per coatti del web. Scandiscono, per i pochi che non dimenticano, una sola parola: “abbandono”.

Solo la violenza degli ignoranti poteva industriarsi in un secondo sciagurato tentativo di sistemare un metrò sopra una chiaja come se fosse un trenino in una vetrina di un giocattolaio, dimenticando il mare, le grotte, le sorgenti, tutto. E chi è quel genio incivile che ha consentito la costruzione di una piscina sul tetto di un palazzo storico? Già; “il mare non bagna Napoli”; ci vuole la piscina.

La Città della Scienza combatteva la sua solitaria battaglia in una periferia fetida tra materassi e lavatrici scaraventati sulla strada, osceni murales, preservativi usati: un deserto notturno ove è possibile tutto il male possibile. Sola, mentre farabutti d’ogni colore da anni, anni e anni discutono a vuoto la maniera più ghiotta di sparirsi la pizza della povera vecchia Italsider. Ed ora è morta. Bruciata come un’eretica in una notte senza vento. La conoscenza va uccisa: può contagiare.

E Adesso? Prima che si scateni lo sciacallaggio della retorica d’accatto, fermiamoci. Mobilitiamo il ricordo, liberiamo la storia. Ricostruiamo tutti insieme la Città della Scienza e che cambi nome. Si chiami d’ora in avanti: “Rinata Città della Scienza e della Bellezza”. Un simbolo per Napoli, che rinasca dalle ceneri, tutte le ceneri. Nella vecchia Italsider non fate nulla: piantate degli alberi e restituitela ai bambini.

E voi, compaesani, voi napoletani un po’ per bene un po’ no, come me, voi che vi siete lasciati infinocchiare da tutti e che continuate a farvi indignare a comando da cattivi maestri, se la nostra storia e la nostra cultura non torneranno al centro della nostra vita sarete, saremo, apolidi senza ricordi. Basta! Cada il silenzio e si ascolti la voce del mare, il genio dei luoghi. Costringersi a capire. Facciamo presto!

Angela Piscitelli
Zona di frontiera, 6 Marzo 2013


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