APPUNTI PER UNA RIFORMA

Rifondare la Repubblica, come è necessario fare, importa la emanazione di una nuova Carta, fondamentale base di ogni nuovo ordinamento giuridico. I partiti, in articulo mortis e con lo stimolo del guru nazionale, sembrano decisi a porre mano alla riforma costituzionale, viatico per il trapasso al futuro che è denso d’incognite.

Finora si sono fatti diversi tentativi, restati tali, per rivedere la Costituzione (Commissione Bozzi nel 1983, quella De Mita-Iotti nel 1992, quella D’Alema nel 1997), sempre però limitatamente alla parte seconda di essa, riguardante l’ ”ordinamento della Repubblica”, ritenendosi che la parte prima – avente ad oggetto i “diritti e doveri dei cittadini” – non fosse bisognevole di revisione perché “la più bella del mondo”. A smentire questo giudizio encomiastico basterebbe osservare, ad esempio, che la Costituzione, dopo aver proclamato “inviolabili” alcuni diritti, quali la libertà personale (art.13) o la privacy (art.15), ne ammette allo stesso tempo la limitazione, senza peraltro indicazione di limiti; prevedendo soltanto che esse debbano avvenire per legge e per atto motivato dell’autorità giudiziaria. Succede, pertanto, che nella prassi di ogni giorno la Costituzione “più bella del mondo” sia bellamente negletta o aggirata, prevalendo l’arbitrio del legislatore nonché, soprattutto, del giudice, che decide solo su richiesta del pubblico ministero, cosicché la carcerazione preventiva o l’intercettazione delle comunicazioni tra privati, che dovrebbero essere strumenti eccezionali, sono, invece, merce corrente a discrezione dei magistrati, i quali però, a maggior danno degli italiani, sono esenti da qualsiasi tipo di responsabilità, non politica, né giuridica (risarcimento danni per le violazioni di legge, pur compiuti con colpa grave o con dolo).

Pertanto, se di riforma si deve parlare essa deve riguardare il complesso edificio costituzionale, compresa la parte relativa ai diritti e doveri delle persone, ovviamente per renderla effettiva.

Ma da noi fa difetto una cultura adeguata ai valori fondanti di uno Stato di diritto: basterà dire che per la giustizia sussiste tra le forze politiche una marcata divaricazione cultural-ideologica, da basso impero, che potrebbe comportare semmai compromessi, che certamente non servirebbero a dare all’Italia una giustizia al passo dei Paesi efficienti e garantisti.

Continueremo, quindi, ad avere “la giustizia più brutta del mondo”! Esiste un qualche Paese in cui un potere dello Stato – il quale disponga dei diritti fondamentali delle persone ed abbia potestà di coercizione – sia esente da ogni responsabilità? C’è qualcuno che possa mandarci a quel Paese, in cui, invece, la giustizia funziona in modo soddisfacente?

Comunque, se la Costituzione è da riformare (in toto o in parte) non possiamo non chiederci, preliminarmente: quale Costituzione deve essere oggetto della riforma, quella formale, deliberata dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947? oppure quella vivente, cosiddetta “Costituzione materiale”, configurata da una partitocrazia incurante dei valori liberali, che invece informano gran parte degli Stati contemporanei? ovvero, ancora, si dovrà dar vita ad una Costituzione del tutto nuova?

Questi interrogativi non sono affatto oziosi, né peregrini, anzi è necessario affrontarli e risolverli se si vuol dare agli italiani una Carta adeguata ai tempi presenti ed a un sistema di democrazia ben funzionante e garante dei diritti di tutti i consociati..

Altri interrogativi s’impongono: chi riforma? e come deve procedere? In altri termini: dovranno essere i partiti, alcuni dei quali non riescono a liberarsi delle sedimentazioni ideologiche del passato? oppure dovrà essere il popolo arbitro del proprio destino a stabilire le regole del gioco con una nuova Assemblea popolare? Certo, anche in questa seconda ipotesi è inevitabile lo zampino dei partiti, che dovranno designare i deputati alla Assemblea (l’ipotesi di liste civiche per l’elezione è assai improbabile); tuttavia questi possono sfuggire alle direttive dei partiti e decidere secondo coscienza e conoscenza, proprio perché eletti dal popolo.

Per l’una e l’altra ipotesi si può fare anche ricorso al metodo della partecipazione popolare via web – la liquid democracy -, vale a dire ad un dibattito pubblico tra i cittadini intorno ad ogni tema della riforma, le cui conclusioni dovrebbero condizionare la Commissione parlamentare per le riforme o l’Assemblea popolare.

Ovviamente sono tutti aspetti che dovranno essere oggetto di serio esame e riflessione, ma ciò deve avvenire subito, essendo una nuova Carta pregiudiziale all’attuazione di un nuovo sistema politico, che è urgente e necessario attuare. Sempre – ben’intesi – che la volontà del cambiamento sia certa e non sia, invece, semplice escamotage, trucco del potere, per ingannare l’opinione pubblica.

Come riformare? La strada maestra è l’Assemblea popolare, in difetto della convergenza in Parlamento di una corposa maggioranza (i due terzi) di parlamentari. Supporre possibile la revisione costituzionale con il voto del 51% dei parlamentari significa perdere tempo e per di più correre il rischio di soccombere al referendum confermativo (è già successo). Tuttavia, è possibile se la riforma riguarda uno o pochi aspetti sui quali il favore dell’opinione pubblica è certo.

Va anche detto che è inutile, perché illusorio, correre appresso ad una (quasi) impossibile ricerca di soluzioni condivise: ogni partito, allora, presenti un proprio preciso ed articolato progetto – nero su bianco – e solo dopo si vada al confronto tra tutte le forze dello schieramento politico, per modo che il popolo, chiamato alle urne, possa scegliere, con cognizione di causa, tra le diverse offerte.

Venendo ora ai temi della riforma costituzionale, per prima cosa bisogna stabilire se si vuole che l’Italia continui ad essere una Repubblica parlamentare, ovvero diventi una Repubblica presidenziale (del tipo di quella statunitense o francese, ovvero di altro tipo). E’ questo un tema suggestivo, che ha infiammato in passato il cuore e la mente di molti e che è rientrato recentemente nel dibattito politico a seguito della proposta del duo Berlusconi-Alfano, di dar vita alla Repubblica presidenziale, quel sistema, cioè, nel quale è il popolo ad eleggere il capo dello Stato. Noi non sappiamo cosa comporta un tale cambiamento, sappiamo, però, che i nostri Presidenti della Repubblica spesso si son lasciati prendere dalla tentazione di varcare i limiti del proprio compito previsti in un regime parlamentare. Basti citare l’ultimo esempio, quello di Giorgio Napolitano, che ha dato vita ad un Governo che non ha legittimazione costituzionale perché non designato dal popolo ed il cui programma non è stato previamente sottoposto alla libera scelta del popolo sovrano. In qualsiasi altro Paese democratico un presidente che così avesse agito sarebbe stato esposto ad impeachment per aver violato la Costituzione e il giuramento di fedeltà prestato, all’atto di assumere le funzioni (da noi, dinanzi al Parlamento in seduta comune).

Altro aspetto della riforma riguarda il Parlamento, che oggi è configurato a doppia Camera con uguali funzioni, sistema che poteva essere giustificato nel passato, non oggi, nel tempo cioè della necessità di rapide decisioni per governare in tempo reale una società conflittuale e in continuo cambiamento per effetto del welfare e della globalizzazione. Sul punto si sono registrate opinioni abbastanza concordi, nel senso di una sola Camera con funzione legislativa (quella dei deputati eletti dal popolo), mentre il Senato avrebbe compiti diversi, attinenti ad interessi locali e perciò chiamato “Senato delle Regioni”, i cui componenti saranno eletti o nominati dalle singole Regioni.

Una riforma comune ai due rami del Parlamento attiene al numero dei suoi membri, che dovrebbe essere ridotto notevolmente, anche per ridurre il costo economico di un Parlamento pletorico e ridondante. La riforma dovrebbe, poi, eliminare l’istituzione dei senatori a vita (ex Presidenti della Repubblica o cittadini illustri): si tratta di istituzione antidemocratica, in quanto potrebbe alterare o condizionare il sistema democratico, fondato sul voto dei cittadini.

E’ da considerare poi massimamente lo spinoso problema del Governo. Come è noto, i Costituenti, condizionati oltre il consentito dalla passata esperienza della dittatura fascista, lo configurarono in modo da essere ostaggio del Parlamento, dal quale deve avere la fiducia (che, peraltro, può anche essere revocata, sia pure con mozione motivata e con appello nominale). Ne è derivato che il Governo, in balia degli umori e degli interessi dei parlamentari, non sempre giustificabili e confessabili, durava in media nove mesi o poco più, salvo eccezioni. E quando durava di più, era perché galleggiava, non nuotava (Andreotti era maestro nel galleggiamento governativo).

Ora si pensa al Governo di legislatura, con un capo eletto dal popolo e che abbia il potere di sciogliere il Parlamento e di revocare i ministri che egli aveva nominato. E’ una soluzione accettabile, che ha anche riscontro in altri democratici Paesi (penso all’Inghilterra, patria della democrazia), sulla quale, tuttavia, occorre riflettere; ed è, comunque, da calibrare se si adottasse il semipresidenzialismo.

C è poi da rivedere la normativa riguardante i cosiddetti poteri di garanzia, sia per quanto riguarda l’accesso dei preposti che per le loro funzioni, il cui ruolo è della massima rilevanza in una società democratica, fondata sugli essenziali principi della separazione dei poteri e della responsabilità.

Della magistratura, quale potere preposto alla tutela dei diritti, vado denunciando da oltre un ventennio la sua connotazione antidemocratica e la sua scarsa efficienza, anche ai fini della tutela dei diritti fondamentali delle persone. L’ho definito potere autocratico all’interno delle istituzioni democratiche, perché è costituito da una concentrazione di potere “forte”, in violazione del fondamentale principio dell’equa distribuzione dei poteri, e del loro coordinamento, e perché è potere illimitatamente irresponsabile. Vox clamantis in deserto!

Anche per la Corte costituzionale occorre la revisione, posto che se ne è avuto una metamorfosi: da organo che accerta la costituzionalità delle leggi ad una specie di superlegislatore, che censura nel merito la legittima discrezionalità dei rappresentanti del popolo, con grave e negativa conseguenza sulla certezza del diritto Ciò è dipeso da due fattori, comuni alla giurisdizione ordinaria: è esente da responsabilità ed è affetta dal virus della politicizzazione.

Ad evitare siffatta anomalia non c’è che l’elettività dei giudici costituzionali. Per i giudici ordinari, dato il loro numero elevato (supera i diecimila) non è possibile adottare il sistema elettivo ma, è possibile altro sistema di responsabilizzazione, del quale qui non è possibile neppure un accenno.

C’è infine la necessità di disciplinare più completamente la pubblica amministrazione: non basta dire, come fa l’art. 97 della Costituzione che “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”: occorre organizzare gerarchicamente la burocrazia, con reali controlli interni ed esterni, capaci di impedire deviazioni e deficienze dei burocrati.

Devo aggiungere (non ultimo) che bisogna introdurre il principio di generale responsabilità e renderlo effettivo, per il quale tutti, nessuno escluso, siano responsabili verso il sovrano, direttamente o indirettamente, per l’esercizio delle funzioni.

Chiudo questi miei brevi appunti con un “avviso ai naviganti” (governanti e governati): per usare la metafora del sommo poeta, è constatazione comune che l’Italia è “nave senza nocchiero in gran tempesta”. Siamo tutti pertanto, – ma proprio tutti – obbligati a fare in modo, ciascuno secondo le proprie possibilità, che la nave non affondi.

La proposta di Berlusconi non è da buttar via, anche perché la Repubblica presidenziale conferisce maggiore contenuto al concetto della sovranità popolare, fulcro della democrazia. Chi è contrario alzi la mano e ne dica le ragioni. I tempi ci sono, se ci si concentra solo su questa modifica (al più estendendola alla riduzione in numero dei componenti il Parlamento).

Perciò non si perda tempo e si decida, anche a maggioranza semplice, sui due aspetti appena detti, essendo favorevole ad entrambi l’opinione pubblica.

Certo, con questo solo cambiamento la nave non sarà fuori dalla tempesta, la quale è veramente grave ed allarmante, ma almeno avremo un nocchiero fuori della nomenclatura e quindi veramente rappresentante di tutti gli italiani e, soprattutto, responsabile verso il popolo.

E’ il primo atto di un salvataggio possibile. Chi si rifiuta di attuarlo si assumerà la responsabilità politica e morale di fronte al popolo e di fronte alla Storia.

Marsilio
Zona di frontiera, 1 Giugno 2012


Lascia un commento