PIAZZA GRANDE

I poeti sono i legislatori misconosciuti del mondo. (Percy Bysshe Shelley)

Vent’anni fa. Ero con un caro amico di sera, a Piazza San Domenico Maggiore a Napoli. Ognuno ha la sua “Piazza Grande” e quella è la mia. Piazza, invero, è una parola grossa: è in quel posto preciso che l’antico decumano si rompe facendosi spazio tra le alte facciate dei palazzi, schiva i banchi dei mercanti di tutto, le auto, i cartoni ammassati negli angoli, e si apre: foro dove ogni tempo della città si fonde. I secoli sono lì accatastati a casaccio, come in una suggestiva polverosa bottega di rigattiere: in alto sulla scalinata le colonne del tempio dei Dioscuri fanno da sentinella alla chiesa barocca che guarda verso San Lorenzo e la strada dei presepi. In disparte la Chiesa “Scorziata” agonizza dignitosamente tra passanti indifferenti e nuovi vandali. Ed è li che i curiosi possono scendere a passeggiare lungo le botteghe romane, e gli arditi inabissarsi muniti di torcia e di stupore, nei recessi che incanalavano le acque del Sebetum. Domina i profili taglienti delle architetture sul cielo, l’effigie curiosa di un San Gaetano danzante, il braccio proteso a farsi strada nel mistero ed a cercare la luce. A Napoli non ci sono alberi, e gli uccelli cercano rifugio in quella mano provvidenziale o nell’aureola.

C’era la luna, appena appannata da una foschia serotina mista al fumo del solito rogo di strada. Da un balconcino alto e stretto una donna sbucò sulla scena con la sua cesta del bucato, con un bimbo attaccato alla gonna. Si muoveva lentamente, come una ballerina di carillon con la molla rotta. Intorno gli occhi spenti delle altre finestre. “Che immensa, struggente, maledetta poesia….” mormorai a me stessa. L’amico scoppiò una risata: “che diavolo ci trovi di poetico, tu, sporcizia, palazzi in rovina, panni, puzza….” Si ride talora di ciò che si teme. “Pensare fa male”. I luoghi sono destini di pietra che conservano i nostri sogni e le nostre miserie. Non si è napoletani, bolognesi o fiorentini per caso.

Fagocitati dalla modernità fittizia, infarciti di retorica e di politichese noi siamo stati forse, tra gli spaesati abitatori del vecchio continente, i più lesti a bandire il senso poetico dalla nostra vita. Ed è così che costruiamo il nostro spazio ed il nostro tempo a misura di nulla: ci hanno programmati per attaccare etichette ed è così che restiamo imprigionati nei barattoli.

Poi all’improvviso, un giorno, muore un poeta, un poeta di strada all’antica, di quelli che non vincono premi e non vanno a pontificare: semplicemente vivono in poesia, sorridendo dolcemente e curano con le loro parole e la loro musica la nostra progressiva, ostinata cecità. E tutti noi, che non abbiamo nè occhi, nè parole, ci ritroviamo a piangere ed a prendere a prestito le sue: negli angoli nascosti di quell’ingombrante fardello che qualcuno chiama anima, appare la luce fioca di un fanale, come al tramonto, e “vediamo”. Sono momenti che passano, il vortice ci inghiotte di nuovo e tutto scompare.

Ma resta il fatto che abbiamo pianto anche se non sappiamo veramente perché. Piangiamo noi stessi e tutte le cose che ci mancano e che nel barattolo non possiamo ritrovare: l’incanto dei luoghi, il volo di una rondine, il sorriso di un amico, la penombra d’una chiesa, un balcone spalancato sul mare, l’amore, forse.

Già, l’amore. Se muoiono i poeti muore anche l’amore e restano le annunziate acquattate a sentenziare contro il diverso, anche se è un sacerdote che si sottrae alla marmellata rancida del conformismo e sa distinguere l’ostentazione pacchiana dall’autentico sentimento ed ad esso riserva una preghiera commossa. I veri pastori lo sanno: il gregge non esiste, ci sono solo tante pecore con tanti cuori.

La poesia non sa far di conto, non conosce le regole del mercato, non risponde ai sindacati, ai partiti e non produce in apparenza ricchezza esteriore. Eppure ogni scintilla creativa dell’uomo è una specie di opera d’arte: crediamo possa essere una semplice sequenza di numeri o un assemblaggio di pezzi, ma in realtà se non esistesse la fantasia, non ci sarebbe progresso.

La politica e l’informazione non si sottraggono a questa semplice legge negata. Senza emozione non c’è comprensione e non può esserci azione compiuta. Siamo uomini non automi, tutti portatori ignari d’un mondo interiore che urge sul limitare dei nostri giorni. Se tutta l’Italia ha pianto un poeta dev’essere perché siamo stanchi del nulla, avvelenati dalla pacchianeria, dall’ostentazione dei cattivi sentimenti che pure coltiviamo quasi sempre con troppa disinvoltura. Se fosse una favola, le lacrime sveglierebbero i dormienti dal sortilegio malefico. Invece lo spettacolo continua, ma ci piace sempre meno.

Angela Piscitelli
Zona di frontiera, 5 Marzo 2012


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