RIVOLUZIONE PACIFICA (I PARTE)

La conclusione del transito terreno dell’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro è stata l’occasione per ricordare la figura di un uomo cruciale nella storia di questo paese nella sua fase repubblicana. Celebrato da tutti i partiti politici, nella circostanza – come era immaginabile che fosse, nonostante le tante ombre che ne offuscano l’immagine – Scalfaro è davvero un simbolo. Anche se non molti sono stati i commentatori che hanno evidenziato la battaglia nella quale il politico e magistrato italiano più si contraddistinse: quella per la conservazione di un vecchio sistema politico e della Costituzione sulla quale esso si reggeva (e si regge).
Scalfaro fu aperto e fiero oppositore di ogni processo riformatore, ritenendo la costituzione del ’47 un vero totem, una sorta di vitello di carta da ossequiare in ogni modo. Agli antipodi, si pose, ad esempio, un altro Capo dello Stato, anche egli cattolico, quel Cossiga che, nella veste di “picconatore”, affermò senza peli sulla lingua che quella carta era “il frutto del pasticcio corporativistico dei professorini democristiani che all’epoca non avevano alcuna esperienza politica”.
La strenua difesa della vecchia Costituzione da parte di tutta una serie di forze politiche è senza dubbio la causa principe della inadeguatezza del nostro paese nell’affrontare le sfide di oggi, oltre ad essere l’origine di un sistema immobile, in mano alla partitocrazia, a sua volta causa dell’accumularsi del debito pubblico, del clientelismo, della corruzione fuori da ogni recinto.

Di recente, Michael Ledeen, esperto Usa in politica estera, ha sostenuto che l’occidente versa in una fase prerivoluzionaria, non molto dissimile da quella che ha preceduto le cosiddette “primavere arabe”. Ora, a prescindere dall’opinione su queste ultime, è chiaro che l’aria che si respira, almeno qui da noi, nella vecchia Europa, ed in particolare nella sua parte mediterranea, è assai pesante: la situazione greca ci viene rappresentata ogni giorno di più come apocalittica mentre in Italia un malessere sociale montante è alla base sia degli attentati contro le sedi di Equitalia sia del movimento dei “Forconi” in Sicilia. Soggetti assai diversi da quelli che animarono le passate stagioni calde e che mai hanno avuto una centralità nella vita politica italiana, dai camionisti ai pescatori ai pastori sardi, ma senza ignorare la borghesia produttiva che va verso la rivolta fiscale, fanno sentire la loro voce. L’immiserimento dei ceti medi iniziato negli scorsi anni, ora aggravato dalle politiche di austerity dettate dall’Europa ai tecnocrati che ci governano, indubbiamente efficienti e ligi come nessun altro prima nello svolgere il compito assegnatogli, è alla base dell’esplosiva situazione venutasi a creare. In questo clima, in Italia, da un lato il silenzio della politica tradizionale (quella dei partiti, i quali dopo il fallimento che li ha messi da parte sostengono la svolta tecnocratica voluta dal Capo dello Stato), dall’altro il vento sempre più forte dell’antipolitica, che assume ora i connotati del qualunquismo di Grillo, ora quelli della generica polemica degli indignados in rivolta contro la “casta” e le banche, destano preoccupazione in chiunque abbia a cuore le sorti della nazione.

Come uscirne? Facciamo un salto indietro, di oltre 160 anni. Il 4 marzo del 1848, Carlo Alberto “con lealtà di Re e con affetto di padre” promulgava la Costituzione del Regno di Sardegna, fatta predisporre da una Commissione di uomini politici e di magistrati. Con lo Statuto il Governo, da monarchico assoluto si trasformava in monarchico rappresentativo: il Sovrano, cioè, poneva una serie di limiti sostanziali alla sua potestà, sino ad allora illimitata. Si trattò di un evento sicuramente rivoluzionario, al quale può farsi risalire la prima origine (almeno sul piano dell’ordinamento costituzionale) di quel processo che portò tredici anni più tardi alla nascita dello stato nazionale. Si trattò, tuttavia, di un passaggio avvenuto in modo non cruento. Solo un giovane pubblicista, ritenuto dai più un ingenuo idealista (e considerato fino ad allora un “reazionario”), e cioè Cavour, aveva creduto in questa strada. Aveva creduto, cioè, che il Re potesse cedere di sua spontanea volontà (e non costretto da insurrezioni e moti di piazza), anzi addirittura che al Re “convenisse” spogliarsi di una fetta così rilevante di potere. Eppure, fu proprio ciò che avvenne.

Ma facciamo un altro salto storico, di oltre un secolo, e geografico: settembre 1958, si consuma una rottura – quella che segna il passaggio dalla IV alla V Repubblica – che possiamo definire, sul piano dell’ordinamento costituzionale, anche in questo caso di natura rivoluzionaria. La IV Repubblica francese assomigliava molto al nostro sistema attuale: un sistema bloccato, discreditato, incapace di decidere. Un sistema che stava secernendo ondate maligne di antiparlamentarismo e di demagogia. Anche in questo caso il passaggio ad un regime completamente nuovo, che consentì alla Francia di superare felicemente la gravissima crisi determinata dalla decolonizzazione, non richiese nè scontri cruenti, né barricate.

Infine, un terzo esempio. Tra il 2 febbraio 1990 (data del discorso di apertura del Parlamento del Sud Africa col quale l’allora Presidente Willem de Klerk annunciava la legalizzazione dell’African National Congress, il partito nato nel 1944 ad opera di Nelson Mandela e Oliver Tambo per combattere l’Apartheid) e il marzo 1992, quando un referendum votato da soli bianchi approvò con più dei due terzi dei voti (68%) la proposta di una nuova costituzione in cui fossero riconosciuti diritti politici anche ai neri, si realizza un altro caso di rivoluzione (con trasformazione profonda della costituzione formale e materiale di un paese) per via pacifica e non priva di consenso accordato anche da forze sociali e politiche destinate ad uscirne ridimensionate e prive dei poteri precedentemente detenuti.

Si è voluto qui richiamare questi precedenti storici (molti altri ancora possono essere ricordati e proposti ad un’analisi ravvicinata) per chiarire quello che è l’obiettivo oggi più realistico e auspicabile (insieme) per uscire dalla crisi italiana: una rivoluzione pacifica.

(segue)

Mario Colella
Zona di frontiera, 31 Gennaio 2012


Un commento a “RIVOLUZIONE PACIFICA (I PARTE)”

  1. Alcune brevi osservazioni. Sulle ombre, direi che anche Cossiga ne aveva e molte pure; anche la sua opinone sui professorini è del tutto astorica ed inaccettabile, dato che nelle condizioni del 1947 di meglio non si poteva fare. Era, a mio avviso, criticabile anche la posizione di Scalfaro, ossia non toccare nulla. Le Costituzioni invecchiano come qualunque prodotto umano. La necessità di riformarla è evidente, mentre lo è meno il dove. I dilettantisci tentativi del centro-sinistra, purtroppo riuscito, e del centro-destra, fortunatamente sventato, di mettere mano a pezzi di Costituzione senza lavorare ad un quadro di insieme e condiviso, hanno completato la frittata. Ora Mario parla di rivoluzione pacifica, che deve essere culturale. Come non essere d’accordo con lui? Ma a me sembra che il clima sia quello della Vandea, del Sanfedismo, della Jacquerie. Rivolta fine a se stessa, anche violenta, contro tutto e tutti. Per distruggere e non per costruire. Si avrà la forza ed il tempo per una rivoluzione culturare vera, prima che la Jacquerie prevalga?


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