LA NAVE AFFONDA

La nave affonda. No, non mi riferisco alla Costa Concordia né a Francesco Schettino. Anzi, di questa vicenda non ne ho parlato – e non ne parlerò di certo ora – perché sono rimasto schifato per come è stata trattata da tutti gli organi d’informazione e provo orrore per la lapidazione mediatica inflitta al Comandante. Massimo rispetto per le vittime e condoglianze ai loro parenti per questa tragedia, ma non si può condannare alcuno sulla base di ricostruzioni giornalistiche. Per “nave che affonda” intendo il nostro Paese, e non è mia intenzione lanciarmi in alcuna demenziale metafora con quanto occorso sulle coste dell’isola del Giglio, come da più parti si è potuto leggere.

Draghi sta lanciando dichiarazioni allarmate per tutta l’area euro, più di una fonte autorevole dà per certo il fallimento della valuta unica e, dopo la recente perdita della tripla A della Francia, nemmeno la Germania sembra più tanto al sicuro. L’Fmi prevede nel 2012 per l’Italia un pil a meno 2,2%: recessione secca. La governance europea è incapace di una politica chiara ed efficace che, almeno nelle idee, sappia proporre delle soluzioni alla grave crisi in atto.

Mario Monti le idee le ha ben chiare, invece. Peccato siano sbagliate. Con le misure che ha posto in essere l’unica speranza che ha di recuperare gettito deriverà dalla tassazione indiretta: accise, Iva e dall’Imu. Cioè da quelle forme di tassazione dalle quali non si può proprio scappare, a men di non trasferirsi in un altra nazione, che è quanto stanno facendo una marea di aziende. Il livello di pressione fiscale, già prima insopportabile, ha raggiunto picchi insostenibili per chiunque. Il risultato sarà di aumentare il numero delle aziende che chiuderanno, generando economia sommersa, e le fughe di imprese e capitali.

In Slovenia un dipendente con uno stipendio d’ingresso di 900 euro costa al datore di lavoro la bellezza di 1.200 Euro, compresi i costi previdenziali e assicurativi. In Italia, lo stesso dipendente, per il medesimo stipendio, grava sull’azienda per più di 2mila euro. Il che significa che un imprenditore italiano spende per tre dipendenti la stessa cifra che uno sloveno spende per cinque. Sempre in Slovenia il gasolio per autotrazione costa meno di 1,3 euro/litro, quello per il riscaldamento meno di 1 euro/litro. Non esiste il bollo per gli autoveicoli, le assicurazioni si pagano molto meno. Il costo dell’energia elettrica è ridicolo: una famiglia di tre persone, per un appartamento di 70 metri quadrati, può arrivare a pagare 120 euro al mese. Vi sembra molto? Considerate che una simile bolletta arriva solo nella stagione invernale. Infatti molti condomini si riscaldano elettricamente e quindi quel costo comprende pure le spese di riscaldamento. Diversamente, per una abitazione rurale o una piccola villetta, con impegno di 6 Kw (non credo esista di meno), si paga circa 15/20 euro al mese. Ma loro hanno buona parte del fabbisogno energetico garantito da Krško, una centrale nucleare, mica da pale eoliche o pannelli solari.

Parliamo di un Paese europeo, con la valuta in euro e con merci, aziende e persone che possono liberamente fare concorrenza – e la fanno, eccome se la fanno – al nostro. Non solo ci sono imprese di costruzione, trasporti o del comparto alimentare che vendono o vengono ad operare in Italia, ma ci sono pure tantissime aziende italiane che si stabiliscono in Slovenia, con tanti saluti a Monti. Lo stesso accade anche con l’Austria o addirittura con la Svizzera, dove un caffè costa più di 3 euro. Eppure, nonostante il tenore di vita più elevato del nostro, ci sono imprese che traslocano nel paese del formaggio con i buchi, preferendolo al paese che i buchi li ha invece nel bilancio.

Non ci sarà decreto “cresci Italia” che ci salverà, è una questione di mercato. Soprattutto non sarà il decreto di Monti sulle liberalizzazioni a risolvere alcunché. Sono una beffa, non vanno a sostegno dei settori produttivi, ma se la prendono con i tassisti oppure con le farmacie, con il risultato – se passeranno – di impoverire il reddito dei primi e di spostare gli utili di una categoria protetta come quella dei farmacisti a favore di un settore che non ne ha bisogno, come quello della grande distribuzione. L’intento, goffo e insufficiente, spera di abbassare i costi di beni e servizi. Lo si vede anche con la riforma per i distributori di carburante, che potrebbe portare ad un risparmio di circa 10 centesimi alla pompa. Bene. Peccato però che se paghiamo la benzina più di tutti in Europa è colpa delle accise, non del benzinaio che non è libero di rifornirsi dove più gli conviene.

L’enorme pressione fiscale, l’assoluta incapacità di “leggere” il Paese da parte della classe dirigente, il pugno di ferro dell’Agenzia delle Entrate, le gravissime difficoltà che incidono su strati sempre più larghi della popolazione stanno producendo l’unico risultato possibile: scioperi, proteste, bombe a Equitalia, ecc.

La situazione è esplosiva e il Movimento dei Forconi, partito dalla Sicilia, sta contagiando altre zone del Paese. Non sono indignados, sono incazzati neri. Non sono figli di papà che vanno a campeggiare in qualche bella piazza d’Italia, questi la piazza la bruciano. Non basterebbe una Costa Concordia a settimana per silenziarli; nemmeno basteranno le accuse di collusione con la mafia, come fossero un Tortora qualsiasi, per zittirli. Questi – tassisti, pescatori, camionisti, agricoltori, allevatori, ecc. -, sono capaci di paralizzare l’Italia in due giorni e di ridurla alla fame in poco più di una settimana. Basta vedere com’è ridotta la Sicilia dopo pochi giorni di blocco: distributori senza benzina, supermercati vuoti, un’intera regione paralizzata. Potrebbe essere solo l’inizio di una protesta più estesa, anche se più probabilmente pure questa rivolta si esaurirà e non riuscirà a scuotere tutta la società. Queste reazioni, i professori, luminari europei, dovrebbero conoscerle, prevederle o perlomeno averle studiate su qualche libro di storia per prevenirle. Dovrebbero sapere cosa significano. La campana d’allarme che la direzione presa è sbagliata ormai dovrebbe essere suonata ben forte, eppure nulla: Monti continua imperterrito per la sua via, massacrando la parte produttiva della nazione pur di continuare a mantenere intonsi e ben pasciuti gli insaziabili, sterminati apparati burocratico-statali.

Eppure la soluzione per far ripartire l’Italia ci sarebbe (euro o non euro), semplice ed ovvia: un’aliquota secca del 20%, defiscalizzazione del 50% per carburanti ed energia, totale sburocratizzazione del mondo dell’impresa lasciando così le risorse in mano a chi sa farle fruttare. L’Italia ripartirebbe. Già, però lo Stato come sopravviverebbe? Semplice: dimagrendo all’osso e rendendo trasparenti i costi della pubblica amministrazione, che nella loro voluta complessità sono la vera causa di ogni deficit, debito pubblico e fonte, questa sì, di arricchimento illecito ed esentasse. Potrebbe bastare. E se non bastasse si dovrebbe procedere a licenziare parte di quella immensa mole di dipendenti pubblici, assunti per clientela, e che potrebbero essere assorbiti da un settore privato divenuto florido e trainante. Ripartiremmo a razzo, altro che Bric!

È un sogno che non si avvererà, ovviamente, e lentamente dovremo bere l’amaro calice fino in fondo, consumandoci in questa straziante agonia fino a quando non ci saranno più denari nemmeno per pagare sanità, pensioni e dipendenti statali. A quel punto anche l’Italia che vive nelle riserve, brucando l’erbetta che lo Stato elargisce loro, si renderà conto in che drammatica situazione ci ritroviamo. Fino ad allora non ci sarà alcuna rivoluzione, ma per ingannare l’attesa possiamo intanto tifare per i Forconi.

Paolo Visnoviz
Zona di frontiera, 20 Gennaio 2012


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