LA RESPONSABILITÀ DI BERLUSCONI

A scanso di equivoci: nel ritornare sul tema della responsabilità politica del leader del Pdl, mi pare opportuno premettere che a) le critiche che qui rinnovo all’operato politico di Silvio Berlusconi in questa legislatura sono a fine costruttivo e non significano affatto il venir meno del mio impegno a favore di una cultura liberale e contro la cultura marxista-leninista che, camuffata da cultura democratica, continua a condizionare in negativo l’evoluzione del nostro sistema; che b) pur consapevole che la logica del diritto non sempre va di pari passo con la logica della politica, tuttavia non posso non considerare, da una parte, che il nostro Stato è – per dirla con Giovanni Sartori – “liberal-costituzionale”, in quanto tutto l’ordinamento giuridico è costretto sotto il firmamento di una Costituzione rigida, deliberata dal popolo (a mezzo di suoi rappresentanti), quindi è, come si dice, uno Stato di diritto; dall’altra, che anche la politica, sebbene sia in sé attività preminentemente discrezionale, tesa al raggiungimento dei fini della governance (oggi in regime di welfare), non può non tener conto delle ragioni del diritto ed in particolare del diritto costituzionale, non soggetto ad interpretazioni soggettive.

Certo, io non sono uno scienziato del giure, né un intenditore della politica e neppure un professore bocconiano del tipo di quello che è salito sulla cattedra della politica a governare un Paese per molti aspetti anomalo; tuttavia, da cittadino accorto e non conformista, credo di poter avanzare qualche critica a Berlusconi, al quale pure è da riconoscere eccellenti qualità di leader politico e, perciò, avente un forte carisma, che è merce rara nel mercato politico italiano.

Egli scendendo nell’agone politico, in primo luogo, per evitare la presa del “Palazzo” (termine pasoliniano) da parte dei comunisti (i quali avevano approntato alla bisogna una “gioiosa macchina da guerra”, dopo che la c.d. rivoluzione “legale e saggia” delle toghe milanesi aveva di proposito spianato loro la strada), promise agli italiani di fare dell’Italia un Paese normale ad intonazione liberale, sebbene nel solco del popolarismo europeo. Questo programma è restato, però, una pia illusione: l’Italia è continuata ad essere un Paese anomalo, che ignora la Costituzione che si è data e che è assolutamente distante dalle maggiori democrazie occidentali, efficienti ed allo stesso tempo garanti dei diritti delle persone e del regolare svolgimento del sistema democratico. Il discorso al riguardo è troppo lungo e complesso da sconsigliare qualsiasi osservatore a tentarne persino un accenno; ma è indubitabile che, ad onta delle retoriche proclamazioni, con l’elogio dell’Italia e degli italiani (vedansi le ripetute esternazioni del capo dello Stato), siamo restati al palo, come suol dirsi. Anzi, sia la classe governante, destra e sinistra, sia la cosiddetta società civile, hanno fatto registrare negli anni presenti segni di involuzione etica e democratica.

Certamente Silvio Berlusconi non è né il solo né il maggiore responsabile di questa mortificante situazione da basso impero, ma è innegabile che l’Italia normale, giusta, liberale ed efficiente, non è stata realizzata, nonostante egli abbia avuto (e sembra continui ad avere) il consenso della maggioranza degli italiani. Ma quali sono le ragioni di tanto consenso? E, soprattutto, quali le ragioni della mancata realizzazione del cambiamento? Le ragioni del consenso vanno ricercate nell’anelito della collettività ad una società giusta, che elimini o, almeno riduca le profonde disuguaglianze sociali e la corruttela del sistema politico – tutte connotazioni negative della nostra Repubblica – e porti, oltre il benessere, un po’ di felicità. Non si trattava proprio di una utopia (Berlusconi non era né un Campanella, né un Marx, per citare solo qualche esempio di utopisti della storia), perché il suo programma non era utopistico, sebbene di non facile e sicura attuazione nei tempi brevi di una legislatura, tenuto conto altresì del contesto socio-politico esistente, retaggio negativo di nostri atavici vizi, di cui è intrisa la nostra travagliata storia.

Una delle colpe che si possono addossare a Silvio Berlusconi è la mancata conoscenza dell’avversario e del contesto socio-politico nel quale si trovava ad operare; dal che è derivata l’assenza di una adeguata strategia per realizzare il cambiamento. D’Alema andava dicendo che i comunisti non mangiavano più i bambini, ma la metafora non era convincente perché restavano le numerose sacche di socialismo reale innestate dal Pci nella nostra gracile democrazia: tessendo la trama ideata da Gramsci – la teoria delle casematte – i comunisti erano riusciti ad infiltrare i loro uomini in tutti i gangli vitali dell’organizzazione dello Stato (giustizia ordinaria, amministrativa e costituzionale, media, ministeri, scuole, arte, etc.) e della società civile. Non si trattava, quindi, di lottare solo contro un partito politico contrario al cambiamento in senso liberale del sistema, ma anche di aver ragione di un mondo di fiancheggiatori di quel partito (spesso occulti) e di una cultura sempre intinta in una ideologia che veniva da lontano, dall’utopia, connotata di menzogne efficacemente veicolate.

A ciò si deve aggiungere la mancanza di un suo, personale staff tecnico, di elevata competenza, che lo consigliasse bene nelle scelte politiche (illuminante l’esempio dei provvedimenti sulla giustizia, bollati dagli avversari come leggi ad personam). Poi, come altre volte ho osservato, Berlusconi non ha mai adottato lo spoil system, che vige in Paesi a democrazia reale, non di facciata, che consiste nella distribuzione delle cariche politiche ed amministrative a personale di fiducia del partito o della coalizione che ha vinto le elezioni e che ha un razionale fondamento nel diritto-dovere di realizzare il programma che ha avuto il consenso elettorale maggiore, evento che potrebbe non verificarsi se nel sistema operino soggetti ostili a quel programma.

Altri errori hanno connotato il suo percorso politico: per esempio, Berlusconi avrebbe dovuto sollecitare l’intervento del Capo dello Stato per indurre Gianfranco Fini a lasciare la carica di presidente della Camera dei deputati quando questi manifestamente aveva cessato di essere imparziale. E’ vero che la Costituzione non prevede espressamente questo tipo d’intervento del Presidente, ma questi poteva avvalersi della moral suasion. Il mancato appello ha importato che il capo dello Stato ha potuto nicchiare, nonostante l’atteggiamento di Fini, ostile a Berlusconi, cioè alla coalizione che lo aveva eletto al soglio. Che fare? A mio avviso si doveva far mancare in ogni sessione il quorum necessario per il funzionamento della Camera, per modo che si rendesse necessario lo scioglimento anticipato della stessa (artt. 64 e 88 Cost.).

Ma la colpa ancora più grave di Berlusconi, sta nell’aver egli abbandonato i suoi elettori, dando le dimissioni da capo del Governo. Inoltre, dando l’appoggio a Monti, ha consentito che i cittadini venissero tartassati ingiustamente e per ragioni non chiare, comunque, in violazione del principio costituzionale, secondo il quale “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”(art. 53): sono stati, invece, esentati dal versare lacrime e sangue (o a versarne molto di meno) non solo tutti i rappresentanti di caste, a cominciare dal capo dello Stato, ma anche tutti quei fortunati cittadini, pubblici e privati, che hanno redditi elevati.

Silvio Berlusconi si discolpa dicendo di aver agito, e di agire, per senso di responsabilità, ma, in primis, la responsabilità è verso il proprio elettorato, il quale ha il diritto di esigere chiare e convincenti spiegazioni, nei modi canonici della democrazia, cioè in Parlamento, dei motivi delle dimissioni. Questo, di presentarsi in Parlamento e di chiarire le ragioni delle dimissioni (e del dovere del Presidente della Repubblica di invitate il Presidente del Consiglio a farlo) è un precetto della democrazia parlamentare inteso al controllo del Parlamento sulle dimissioni del Governo e ad evitare che la soluzione della crisi sia un affare privato tra i due presidenti.

Ritenevo che le crisi extraparlamentari fossero solo un ricordo del passato, ma ho dovuto constatare che ancora una volta si è avuto un tal tipo di crisi, mentre quella prevista dalla Costituzione, si ha quando al Governo sia stata revocata la fiducia dal Parlamento, mediante mozione motivata e votata per appello nominale (art. 94). E’ un’esigenza di trasparenza anche nei confronti degli elettori, specialmente con riguardo alla legge elettorale attuale che prevede l’indicazione da parte degli elettori del capo del Governo. Nel caso delle dimissioni di Berlusconi non conseguenti ad una revoca della fiducia, la soluzione che è stata adottata dal Presidente della Repubblica non appare corretta perché ha tolto al Parlamento il diritto-dovere di non accogliere le dimissioni o, al contrario, di revocare la fiducia. Così il Paese non ha saputo e non sa le ragioni della crisi di governo: il popolo sovrano resta all’oscuro e gabbato.

Resta, però, la responsabilità di Berlusconi nei confronti dei suoi elettori. Il trincerarsi dietro un ambiguo “senso di responsabilità” lascia l’adito a sospetti, di aver voluto che siano altri a togliere le castagne dal fuoco della grave crisi economica (è una chiave non inverosimile di lettura); oppure di aver voluto gettare la spugna dopo l’ultima defezione di componenti della maggioranza (anche questa è una chiave di lettura non inverosimile). Ma mentre mi lambiccavo il cervello a dare una risposta a tali sospetti è intervenuto lo scoop del quotidiano statunitense The Wall Street Journal, secondo il quale in data 20 ottobre dello scorso anno la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, avrebbe telefonato al Presidente della Repubblica italiana per sollecitarlo a cacciare Berlusconi e sostituirlo con Mario Monti, personaggio più credibile agli occhi tedeschi, ed al fine di evitare la crisi dell’euro che minaccia anche gli interessi della Germania. Non so se il contenuto della telefonata – ammessa dai due colloquianti – sia corrispondente a quanto riferito dal quotidiano statunitense, mi interesserebbe sapere però se Napolitano ne fece partecipe, oppure no, il capo del Governo: nel primo caso questi fu consenziente al suo defenestramento e qundi responsabile di fronte ai propri elettori, nel secondo caso alla responsabilità del Presidente della Repubblica, che si è arrogato un compito che non gli spettava, si aggiunge la responsabilità di Berlusconi, il quale non solo controfirmò l’illegittimo atto di nomina di Monti a senatore a vita (chiaro preludio alla successiva nomina di capo del Governo), ma cosa più grave consentì con il voto di fiducia del Pdl la nascita del Governo tecnico senza legittimazione popolare e senza probabilità che ci porti fuori dalla crisi; al contrario è assai probabile che ci porti alla recessione.

Responsabilità verso i propri elettori e verso il Paese: grava su Berlusconi l’onere, se vuol continuare ad essere il leader del Pdl (o come altro si vorrà chiamare), di chiarire le ragioni del getto della spugna. Per altro dovrà dire chiaramente, se ed a quali condizioni, a suo avviso, l’Italia dovrà continuare far parte dell’Unione europea. Insomma bisogna che delinei un chiaro progetto politico non solo per la salvaguardia degli interessi nazionali, bensì anche per la difesa della dignità dell’Italia e dell’ordinamento giuridico costituzionale, perché il Paese che svende la propria dignità e piega la propria Costituzione agli interessi altrui non merita rispetto, né dentro né fuori i propri confini.

Marsilio
Zona di frontiera, 8 Gennaio 2012


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