GIUSTIZIA ITALIANA: CONSIDERAZIONI FINALI

Con questo articolo Marsilio conclude le considerazioni sullo stato della giustizia italiana e sul disegno legge di riforma della stessa. Qui si possono trovare i precedenti articoli.

Ad uno storico della istituzione giudiziaria italiana o, comunque, a colui che sia un po’ attento alle vicende della politica e giustizia nel nostro Paese – specialmente dal 1948 (epoca di entrata in vigore della Costituzione repubblicana) ai nostri giorni – non sfugge che quello che si svolge in Italia sulla giustizia è un discorso tutt’altro che serio e tutt’altro che consapevole della importanza fondamentale della giustizia – delle sue strutture e del suo funzionamento – in una società veracemente democratica. Il recente disegno di legge sulla giustizia – su cui ho speso poche parole, sicuramente insufficienti al fine di trattare un tema così grande e così importante in un sistema liberaldemocratico (ma tornerò per approfondire in un’altra occasione) – ne è tangibile riprova.

Per comprendere appieno la situazione della giustizia italiana mi pare opportuno qualche cenno sulla evoluzione della magistratura che, da subalterna al potere politico (nel regime monarchico era infatti una struttura dell’apparato governativo, all’interno del Ministero di grazia e giustizia), è pervenuta a posizione egemonica all’interno delle istituzioni democratiche, con rottura, quindi, di quel delicato sistema di equilibri tra i poteri dello Stato, che è a fondamento del costituzionalismo moderno occidentale. Infatti, il conflitto tra potere politico e potere giudiziario, esploso circa un quarto di secolo fa, si sta risolvendo a favore di questo potere burocratico, tanto da far dire ad acuti e competenti osservatori che la nostra è ormai un “democrazia giudiziaria” (vedasi C. Guarnieri- P. Pederzoli, edito da Il Mulino, 1997). Tanto è negativo questo esito da far scrivere ad Angelo Panebianco (nella prefazione al saggio di due magistrati francesi – Antoine Garapon e Denis Salas -“La Repubblique penalisée”, edito da Hachette Livre, 1996 e da Liberilibri. 1997): “… di sicuro, la democrazia giudiziaria rischia di svuotare dall’interno la liberaldemocrazia, rischia di mettere capo a forme inedite di democrazie illiberali o autoritarie. Non so se Panebianco, osservando la situazione attuale, parlerebbe ancora di “rischio” e non, invece, di evento in atto.
L’opinione pubblica italiana, del tutto disinformata, pur avendo perso fiducia nella giustizia, non ha compreso ancora che la democrazia liberale, garante dell’uomo, dei suoi diritti e delle sue libertà, si è trasformata completamente, in peggio, per la crescita abnorme del giudiziario, crescita che è in violazione di quella Costituzione che fu deliberata dal popolo nel 1947, attraverso l’Assemblea Costituente, nonché di tutti principi che sono alla base della società democratica.

Che cosa ha impedito a che l’assetto giudiziario italiano, nel passaggio dal regime monarchico a quello repubblicano, evolvesse in istituzione democratica, al passo degli altri Paesi progrediti?
Ad essere sinceri fino in fondo, dovrà dirsi che è stata l’egemonia culturale comunista che ha dominato le vicende della prima e seconda repubblica italiana, egemonia tesa alla costruzione del socialismo (alias, comunismo) nel nostro Paese, nel quale il sistema giudiziario fosse al servizio del “principe”, cioè del partito comunista. Ora questa importante forza politica è a rimorchio dell’Anm, ma, comunque, ne costituisce il decisivo puntello.
Tra quanti sono alla ricerca delle cause dell’anomalo assetto giudiziario, nessuno ha ricordato il colpo di mano, una prima volta, di Palmiro Togliatti nel 1946 e, una seconda volta, nel 1988, dai magistrati componenti la Commissione ministeriale per la emanazione delle norme di adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo codice di procedura penale: sono colpi di mano che devono essere ricordati perché gli italiani si rendano conto di quanto siano stati ingannati (lo sono tuttora), prima dai comunisti, poi dai magistrati, in ordine al come e al perché l’istituzione giudiziaria sia diventata una sacca di “socialismo reale”, che non esiste in nessun Paese di democrazia liberale.

Dunque, Palmiro Togliatti, comunista doc, Ministro di giustizia – in uno di quei Governi provvisori che si formarono dopo la caduta del fascismo nel luglio 1943 -, fu autore nel 1946 delle “guarentigie della magistratura” (allora non vigeva il principio della collegialità nel Consiglio dei ministri, sicché ogni Ministro tirava l’acqua al proprio mulino, come scrisse Costantino Mortati). Tra queste guarentigie fu dirompente la sottrazione alla direzione ministeriale delle funzioni di pubblico ministero, direzione esistente, invece, in tutto il mondo (quella novità togliattiana fu chiamata “la via italiana al pubblico ministero”, appunto per sottolinearne la differenza con gli altri Paesi): il pubblico ministero, diventato corpo acefalo ed irresponsabile politicamente, è oggi il più potente potere che esista in Italia, più potente del giudice perché attua la giustizia penale, in anteprima, col concorso dei media, che divulgano le tesi accusatorie. Che l’imputato sia assolto nel giudizio non fa velo alla realtà della condanna per la semplice iscrizione nel registro degli indagati e perciò esposto alla gogna dell’opinione pubblica. Ed è quel che rimane nell’immaginario collettivo.

Tornando a Togliatti: perché il suo fu un colpo di mano? Bisogna sapere che all’epoca i Governi erano abilitati ad emettere provvedimenti aventi forza di legge perché difettava l’organo legislativo (la Camera dei deputati era stata sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni che, a sua volta, era stata sciolta dopo la caduta del regime fascista). Questo potere legislativo del Governo era però limitato ai casi “urgenti e necessari”, ed inoltre era escluso per i provvedimenti di carattere costituzionale (modificare la competenza di un Ministro è appunto una modifica costituzionale). Non v’era nessuna necessità e nessuna urgenza di provvedere in ordine alla concessione di garanzie alla magistratura – il decreto legislativo venne emanato il 31 maggio del 1946 -, cioè due giorni prima della costituzione dell’Assemblea costituente, che aveva essa sì legittimazione democratica ad emettere una legge di tenore costituzionale. Si disse, dai corifei comunisti, che il potere politico, agendo sulla giustizia attraverso il dipendente pubblico ministero, condizionava la giurisdizione: quand’anche fosse stato vero sarebbe bastato eliminare il potere del pubblico ministero sui giudici e non gettare il bambino con l’acqua sporca. La verità era, invece, che Togliatti voleva un pubblico ministero simile alla Prokuratura sovietica, da tutti indipendente fuorché dal partito comunista. Dunque un provvedimento illegittimo per eccesso di potere.

In Assemblea Costituente il dibattito sul pubblico ministero si svolse prima nella Commissione dei 75 (composta da membri dell’Assemblea con il compito di predisporre un testo di Costituzione), la quale non riuscì a trovare una soluzione al problema della collocazione istituzionale e del ruolo di siffatto organo, tuttavia previde che il pubblico ministero godesse della stesse garanzie dei giudici (art. 99 del Progetto). Ma l’Assemblea decise di rinviare il problema al futuro ordinamento giudiziario (art. 107 Cost.), dopo che fosse chiarita la questione della natura delle funzioni. Si disse: ora il pubblico ministero è figura ibrida, organo dell’accusa, ma in parte avente poteri di natura giurisdizionale; domani, col nuovo processo, il problema delle garanzia dovrà avere soluzione coerente alla nuova figura di tale organo (che, però, fino allora dovrà essere tutelato dalle norme per esso stabilite da Togliatti, come precisava l’ordine del giorno Targetti).

Son passati quarant’anni per giungere alla emanazione del nuovo processo penale (1988), nel quale il pubblico ministero, spogliato di ogni compito giurisdizionale, ha assunto la figura di autentica parte processuale. Erano, perciò venute meno le esigenze per le quali erano state mantenute le garanzie di cui al decreto legislativo Togliatti.

Ma – ecco il secondo colpo di mano – la Commissione ministeriale, incaricata di redigere le norme di adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo modello di processo a stampo accusatorio, composta in grande maggioranza da magistrati, si comportò incoerentemente: invece di separare organicamente il pubblico ministero dal giudice, marcò ulteriormente la loro unione (l’unione fa la forza!). La Relazione disse che la legge-delega non aveva demandato il compito di redigere un nuovo ordinamento giudiziario; ed era verissimo, tuttavia quella legge aveva demandato il compito di adeguare al processo penale quello esistente: sicché, configurato il pubblico ministero come autentica parte processuale, si sarebbe dovuto separare la magistratura dall’organo dell’accusa. Se il giudice deve essere al di sopra delle parti non può essere unito organicamente ad una di esso, come comprendono bene anche i profani. C’è un giudice a Berlino, in Italia non c’è.

E’ restata così l’anomalia di un processo di parti, a stampo accusatorio con l’imperialismo della copia giudice-pubblico ministero, tipico del processo inquisitorio, e ciò in contrasto anche con le linee costituzionali ed europee del giusto processo (art. 111 della Costituzione e art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, immessa nel nostro ordinamento giuridico fin dal 1955).

Perciò abbiamo un giudice appiattito sulle posizioni dell’accusatore, suo collega. Chi segue le cronache giudiziarie sa bene che il giudice accoglie le richieste del pubblico ministero e rigetta quelle della difesa, salve eccezioni.
Dunque un colpo di mano, quello della Commissione imbottita di magistrati e di ex, che, però, superò sia il vaglio del Ministro di giustizia (Giuliano Vassalli) che del presidente della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro): allora potere politico e magistratura non erano ancora ai ferri corti, come in seguito, dopo la falsa rivoluzione giudiziaria.

E’ restato perciò il super potere giudiziario (l’unione di pubblico ministero e giudice), il quale ha potuto sconvolgere il sistema politico, con la grande inchiesta sulla corruzione nel sistema politico ed imprenditoriale nel 1993-94, che tuttavia non indagò su se stesso (e c’era una questione morale anche nella magistratura, come scrisse il procuratore di Torino, Vladimiro Zagrebelsky).

Super potere che si rafforzò ulteriormente allorquando, nell’ottobre 1993, il Parlamento intimidito dai magistrati e non difeso dal presidente della Repubblica (il già citato Scalfaro, ex toga) aprì le proprie porte ai pubblici ministeri con l’abolizione dell’immunità parlamentare, prevista dall’art. 68, secondo comma, della Costituzione, nonché da tutte le Costituzioni europee.

Poi è venuto, ad aggravare la situazione già compromessa, il centrodestra, che ha messo in moto un disegno di legge costituzionale per la riforma della giustizia che sembra scritto dai magistrati: contro l’attuale Costituzione è stato costituzionalizzato (nel disegno) l’ordine giudiziario fascista (1941), che si arroga prerogative di autonomia e indipendenza che la Costituzione ha previsto solo per i giudici; sicché permane quella “democrazia giudiziaria” che fece dire ad Angelo Panebianco (vedi sopra) essere la morte della liberaldemocrazia e l’avvio a forme inedite di democrazie illiberali o autoritarie.

Italiani, non date retta a chi dice – forse anche in buona fede – che la magistratura è sana e che le “mele marce” costituiscono una esigua eccezione. Conosco moltissimi magistrati davanti i quali non faccio fatica a togliermi il cappello ed appellarli “vostro onore”: sono uomini che svolgono il loro alto e delicato ufficio con competenza e abnegazione ed hanno la schiena dritta; ma conosco anche moltissimi magistrati che appaiono non adeguati alla funzione di giustizia, anche perché l’abolizione della valutazione del merito nella carriera (che è scandita quasi esclusivamente sull’età) ha comportato uno scadimento della professionalità nella corporazione.

Ma, a parte la considerazione che i magistrati “buoni” nulla fanno per fermare i magistrati “cattivi”, ciò che conta, in negativo, è che l’intero assetto giudiziario italiano è illegittimo sul piano della Costituzione e sul piano dei principi democratici, e perciò si pone come potere costituzionalmente illegale e straripante, pur essendo di natura burocratica. Conseguenza della incontrollabilità e irresponsabilità della magistratura è il deleterio fenomeno della politicizzazione di molti magistrati – che faceva scrivere a Piero Calamandrei : “I giudici per godere della fiducia del popolo non solo devono essere giusti, bensì anche neutrali rispetto alla lotta politica, perché l’opinione pubblica è convinta, non a torto, che prendere parte nella politica voglia dire, per i giudici rinunciare alla imparzialità della giustizia” (“Elogio dei giudici scritto da un avvocato, 1989).

Italiani non credete neppure che tutta la magistratura (o settori di essa) è intinta nella sinistra o, addirittura, è comunista, agli ordini dei politici di questo colore (le toghe rosse). La verità è, a mio modesto modo di vedere le cose, che la corporazione delle toghe – qualunque sia l’opinione politica dei suoi componenti – è una istituzione autocratica, assolutamente anomala nel panorama delle istituzioni democratiche del mondo.

Dunque siamo prigionieri delle toghe. Riusciremo a liberarcene? Certamente si!, se però il Paese riuscirà ad eliminare le metastasi della cultura politica comunista ed avrà una classe dirigente degna di un grande Paese democratico, come è certamente il nostro.

Marsilio
Zona di frontiera, 9 Settembre 2011


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