L’ANOMALO ASSETTO GIUDIZIARIO ITALIANO – di Marsilio

Nel mare delle anomalie italiane spicca l’assetto giudiziario, che è diventato, in violazione della Costituzione, una specie di ircocervo, costituito da due parti: a) il “corpo”, formato dall’ordine giudiziario fascista (legge di ordinamento giudiziario del 1941, art. 4), unione di giudici e pubblici ministeri, tutti magistrati, b) le “ali”, costituite dall’autonomia e indipendenza della magistratura da ogni potere (sebbene concesse dalla Costituzione solo ai giudici – art. 102 – e non anche ai pubblici ministeri, le cui funzioni non sono equiparabili a quelle giurisdizionali). D’altronde, se il pubblico ministero è organo istituito presso gli organi giurisdizionali, non può essere – per la contraddizione che non lo consente – organo presso la giurisdizione e organo della giurisdizione.

Neppure il presidente della Repubblica, custode della Costituzione e presidente del Csm, si è mai accorto di siffatta anomalia, tanto che ci esorta a non delegittimare la magistratura (come se fosse possibile delegittimare ciò che è costituzionalmente illegittimo).

A chi analizzi obiettivamente le cose non può sfuggire che la magistratura contrasta, ad un tempo, sia con la Costituzione che con i principi della separazione dei poteri e della responsabilità per l’esercizio delle funzioni, connotati essenziali di ogni sistema di democrazia occidentale.
Invero, innovando l’ordinamento giudiziario monarchico – per il quale giudici e pubblici ministeri formavano un solo corpo, l’ordine giudiziario, siccome struttura dell’apparato di Governo – la Costituzione (art. 104) ha istituito l’”ordine della magistratura”, potere autonomo e indipendente, comprensivo, – ecco la differenza – solo dei soggetti (giudici) cui è devoluta dall’ordinamento la funzione giurisdizionale in materia civile e penale.

In tal modo la separazione tra giudici e pubblici ministeri è organica, non già di carriere che postula, invece, l’unità di corpo. Insomma giudici e pubblici ministeri formano corpi separati.

Per il pubblico ministero – organo tradizionalmente del potere esecutivo che assolve tre compiti principali: a) vegliare alla osservanza delle leggi, b) vegliare alla corretta amministrazione della giustizia, c) perseguire in giudizio coloro che violano la legge penale – la Costituzione ha prescritto l’obbligo di esercitare l’azione penale (art. 112) e che debba avere delle garanzie, da determinare però col nuovo ordinamento giudiziario (art. 107), chiaritane la figura, che all’epoca era ibrida, avente anche alcune funzioni di giudice.

La settima disposizione transitoria, poi, ha prorogato la validità dell’ordinamento giudiziario allora vigente, ma fino all’emanazione di uno nuovo conforme a Costituzione: il che significa che quello dell’epoca non era ritenuto costituzionalmente legittimo.

E’ accaduto, invece, che la furba classe politica, ad egemonia comunista, ha rinviato alle calende greche l’attuazione del modello costituzionale di assetto giudiziario: i comunisti invero tenevano all’ordine giudiziario fascista, perché funzionale alla loro strategia di conquista del potere, i magistrati tenevano, anch’essi, all’unione organica di giudici e pubblici ministeri (l’unione fa la forza) ma ai fini della loro affermazione come potere super fra le istituzioni: l’uno copre l’altro.
Ne è scaturita, così, la grande anomalia: un potere burocratico “sovraccarico” (organo dell’accusa più organo della decisione), esente sia da controlli che da rendiconti democratici, capace perciò di rivoltare, impunemente, l’Italia “come un calzino”, come dichiarò Piercamillo Davigo, componente del pool milanese, che condusse la cosiddetta rivoluzione giudiziaria.

Ne è risultato stravolto sia il principio della separazione dei poteri (Montesquieu), che quello della responsabilità (è il Governo responsabile di fronte al Parlamento sia della politica criminale che della amministrazione della giustizia, in quanto ne spetta il controllo, tramite il pubblico ministero).

E pacifico che il potere senza controllo e senza obbligo di rendiconto scade inesorabilmente in potere arbitrario: diceva Montesquieu (cito a memoria) che, per eterna esperienza, chiunque esercita un potere è portato ad abusarne onde è necessario che per la disposizione delle cose il potere “arresti il potere”. Del resto quella che noi consideriamo “mala giustizia” altro non è che la conseguenza del potere autocratico, quale è certamente quello della magistratura: usando una nota metafora si può dire che i mali della nostra giustizia sono i frutti bacati dell’albero avvelenato.

Donde l’esigenza – da decenni avvertita – della riforma della giustizia. Il disegno di legge costituzionale sulla giustizia del 10 marzo 2011 altro non è che una controriforma della riforma attuata dai Padri costituenti nel 1947: infatti, è stata abbandonata la distinzione costituzionale tra magistratura e pubblico ministero, ed è stato stabilito, invece, che: “i magistrati si distinguono in giudici e pubblici ministeri” (l’ordine giudiziario monarchico).
In conclusione: un ritorno al passato monarchico, ma accompagnato dalle stimmate repubblicane del potere autonomo e indipendente; peraltro, un potere burocratico che incide su diritti fondamentali, avente tale indipendenza “forte”, esente da controlli e rendiconti, non dovrebbe avere diritto di cittadinanza in democrazia. E l’hanno chiamata la “riforma epocale”!

Quel che più sconcerta e preoccupa, però, è il mantenimento dello strapotere irresponsabile del pubblico ministero: questo è semplice titolare di un potere di azione, non di una potestà e tuttavia è da tutti indipendente nell’esercizio delle rilevanti funzioni – che sopra sono state indicate -, senza un centro di direzione e senza alcun coordinamento interno e soprattutto senza responsabilità politica; può continuare, così, ad inquisire, anche per fini (ovviamente occulti) estranei alla funzione giudiziaria, qualsiasi membro della collettività, o parlamentare, oppure il capo del Governo. Cosa che si verificava solo nelle democrazie di facciata. Su ogni Procura dovrebbe appendersi pertanto un cartello con l’avvertenza “ hic sunt leones”.

Oltretutto è sfuggito agli improvvisati riformatori (apprendisti stregoni) che il rapporto organico Ministro di giustizia/pubblico ministero non può essere eluso, perché la politica criminale, non può che essere determinata dal potere politico Governo/Parlamento e non da una burocrazia. Inoltre il disegno di legge è prodigo nell’attribuire prerogative, ma è del tutto avaro quanto a responsabilità politica, sia per giudici che per pubblici ministeri, il ruolo dei quali non è più di natura esclusivamente tecnico-giuridico: la soggezione alla legge e l’obbligatorietà dell’azione penale sono ipocrisia ufficiale, soprattutto se si considera che l’indipendenza ha generato il deteriore fenomeno della politicizzazione dei magistrati, che è oramai diventato connotato, sempre più evidente, della intera corporazione.

In conclusione la magistratura italiana è diventata potere super, e ciò sia in ragione della sua illimitata irresponsabilità politica, sia perché è in grado di controllare e condizionare gli altri poteri dello Stato, senza che sia, a sua volta controllata.

In Inghilterra, Paese di più antica tradizione liberale, i giudici, nominati con la formula during good behaviour (finché operano bene), sono passibili di impeachment avanti il Parlamento: solo da noi i giudici sono indipendenti da ogni potere, e non debbono dar conto del loro operato (in nessuna altra Costituzione è prevista una tale forma d’indipendenza), solo da noi il pubblico ministero è indipendente da ogni potere (è la “via italiana al pubblico ministero”, introdotta nell’ordinamento da Palmiro Togliatti, Ministro di giustizia nel 1946).

Una riforma seria, per altro a costo zero, possibile attuare con legge ordinaria, sarebbe consistita nell’attuazione della Costituzione, cioè: a) nella istituzione dell’ordine della magistratura (con abrogazione dell’ordine giudiziario), b) nelle garanzie (solo autonomia?) per il pubblico ministero al fine di preservare le sue funzioni da intromissioni indebite (sottolineo: indebite) del potere politico, c) nel formalizzare proceduralmente, nella legge di ordinamento giudiziario, la facoltà del Ministro di giustizia di promuovere l’azione disciplinare (art.107 Cost.) e prevedere l’intervento del Ministro nel relativo giudizio di responsabilità disciplinare.

Non sarebbe stato necessario altro per configurare l’assetto giudiziario costituzionalmente corretto e al passo degli altri Paesi democratici, efficienti e garanti dei diritti fondamentali delle persone.

Marsilio, 26 agosto 2011
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Marsilio
Zona di frontiera, 26 Agosto 2011


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