CONDANNA ALLA PRESCRIZIONE

Quando si parla di prescrizione le idee in proposito non sono troppo chiare. Non raramente confuse ad arte. Persino nella dottrina le opinioni divergono circa il significato proprio di questo istituto. Da una parte si ritiene che la prescrizione sia causa di estinzione del reato: ed in effetti il codice penale la annovera proprio tra le cause di estinzione del reato ed anche il codice di procedura penale prevede che se “il reato è estinto” il giudice deve immediatamente dichiarare il “non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione”, salvo il caso che allo stato degli atti risulta evidente (senza bisogno di altri accertamenti) che il reato non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso, ovvero che il fatto non costituisce reato.

Ma, a ben riflettere ci si rende conto che il tempo (l’entità è precisata dalla legge in ragione della gravità degli illeciti penali) non estingue il reato, ma qualcos’altro: invero, i reati di furto, di violenza carnale, di omicidio, eccetera, non cessano di esistere col trascorrere del tempo, sia che li si considerino come fatti materiali (le condotte umane), le quali non si estinguono nella loro storicità, sia che li si considerino, invece, come fatti o atti giuridici (i reati), la cui estinzione avviene solo con l’abrogazione o con l’annullamento, rispettivamente, da parte della legge e della Corte costituzionale, della norma incriminatrice (ad esempio, il “plagio”, cioè il “sottoporre una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di soggezione”, già previsto dall’art. 603 del codice penale, fu dichiarato incostituzionale con sentenza n. 96 del 1981 della Consulta).

Si ritiene, invece, da un’altra parte, che col passare del tempo stabilito, si estingue la punibilità, cioè il potere di applicare la sanzione prevista dalla legge per il reato oggetto dell’accusa: ma, a ben vedere, neppure tale opinione è condivisibile, perché la punibilità postula l’esistenza del reato ed il suo autore, onde fin quando non cali il sipario sulla scena del processo con l’accertamento definitivo sia del reato che del suo autore, non si può parlare di punibilità: si può dire non punibile un fatto della cui esistenza non si abbia avuto certezza? Si può dire che non è punibile una persona della quale non è ancora certa la colpevolezza? Evidentemente no, o meglio si può dire dal punto di vista astratto, con riferimento al fondamento politico della prescrizione: per il decorso del tempo cessa l’interesse dello Stato a punire l’illecito; ma sul terreno concreto del processo è più corretto ritenere che si estingue il processo, con divieto per il giudice di procedere oltre nell’accertamento. Tempo scaduto!, il processo non può proseguire, quindi è estinto.

Tanto premesso, ci si chiede: che valore ha tutto ciò che si è verificato nel processo prima della prescrizione? Se, in ipotesi, è intervenuta una sentenza di condanna non definitiva, in primo o secondo grado, che valore può darsi a tale evento? I giustizialisti o, comunque, coloro che non sono della materia, dicono che la condanna non definitiva ha comunque valore, appunto, di condanna, e ciò si deve ritenere – dicono – sia perché il giudice non deve applicare la prescrizione quando vi è prova evidente d’innocenza, come si è appena detto, e sia perché quando l’imputato non si è avvalso della facoltà di rinunciare alla prescrizione ammette implicitamente la propria responsabilità. Dunque la sentenza che applica la prescrizione proverebbe la colpevolezza dell’imputato sebbene non sia punibile. Tra i giustizialisti svetta Antonio Di Pietro, che è solito dire (specialmente quando l’imputato è Berlusconi): “lo ha salvato dalla condanna la prescrizione”. Ma Di Pietro ci fa o ci è? Egli è stato magistrato e, fino a prova contraria è giurisperito; ma, non se ne abbia a male se dico che non ne sono sicuro; invero Di Pietro dovrebbe sapere, da una parte, che il difetto di prova d’innocenza non significa prova di colpevolezza e, dall’altra, che spesso l’innocente non si avvale della rinuncia alla prescrizione non perché sa di essere colpevole, ma perché manca di fiducia nei giudici, ancorché questa opinione possa essere infondata.

Per i profani del diritto faccio osservare che l’imputato per Costituzione (art. 27) è assistito da una presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, onde dopo la presunzione di non colpevolezza si converte nella presunzione contraria, cioè di colpevolezza (che però può venir meno a seguito di nuovi fatti o nuovi elementi di prova che portano ad un nuovo giudizio, il quale può mettere capo ad una sentenza di assoluzione). Perché parlo di presunzione di colpevolezza anche dopo il giudizio definitivo di condanna? I romani dicevano: res judicata pro veritate habetur, vale a dire che la sentenza si deve ritenere per vera, ancorché tale possa non essere. E’ necessità pratica che ad un certo punto l’iter processuale si arresti, sicché quella della sentenza definitiva o, come più esattamente si dice, passata in giudicato, deve ritenersi contenente una verità solo probabile, che può essere contrastata da successiva prova (la legge prevede la revisione). Anche nel campo delle scienze fisiche si ammette che la verità assoluta non esiste, potendosi avere solo una verità probabile: Karl Raimund Popper, filosofo austriaco della scienza, teorizzò il principio della “verificabilità” delle proposizioni scientifiche, nel senso che una proposizione è vera finché non venga dimostrata erronea (una prova della correttezza del principio popperiano è di questi giorni: Antonino Zichichi, che guida un gruppo internazionale di ricercatori, avrebbe scoperto, contro le acquisizioni del grande Einstein, che i c.d. neutrini viaggierebbero ad una velocità maggiore di quella della luce). E, poi, con riferimento all’operare umano, vale sempre l’antico monito, secondo il quale l’errore è insidia che si annida sovente sul proprio cammino.

Dopo questa divagazione – che però non è un uscire fuori del tema, perché può servire a sfatare tante conclamate “verità” sulla giustizia umana: «la verità – diceva il giurista Rocco nel suo saggio sugli errori giudiziari – è una sfinge che nessuno Edipo, giudice o legislatore che sia, potrà mai vantarsi di possedere»; e Voltaire diceva che non si dovrebbe mai parlare di certezza, anzi il termine dovrebbe essere cancellato dal vocabolario -, torno a dire che la prescrizione, smacco della nostra giustizia lumaca, non è affatto affermazione implicita di colpevolezza, ancorché non punibile. Una simile opinione è infatti in assoluto contrasto col già richiamato principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza per tutto l’arco del processo, appunto fino alla sentenza definitiva. Infatti, la sentenza potrebbe essere posta nel nulla in un successivo grado del giudizio (appello o cassazione). In altre parole, il pubblico ministero ha l’onere di provare, entro il termine prescrizionale, l’accusa che egli rivolge alla persona, altrimenti la persona rimane nel suo stato d’incensuratezza. Ma, come si è visto, una cattiva cultura, contraria alla lettera e allo spirito del precetto costituzionale, nonché alla logica processuale, ritiene il contrario; cioè ritiene l’imputato colpevole se una sentenza, ancorché non definitiva, ha deciso in tal senso.

Probabilmente anche le giudicesse del Tribunale di Milano – che stanno giudicando Silvio Berlusconi nel processo per “corruzione in atti giudiziari” (seconda battuta del caso Mills) – sono del parere che vi possa essere colpevolezza senza punibilità: infatti incombendo a brevissimo la ineluttabile prescrizione, hanno impresso una inutile accelerazione al processo, con sacrificio, peraltro, del diritto di difesa a far sentire i propri testimoni, e ciò all’evidente scopo di pronunciare la condanna prima che, di qui a poco, maturi la prescrizione.

Per mia esperienza, in una situazione di tale genere i giudici (quelli non accaniti contro l’imputato) hanno sempre ritardato l’iter processuale al fine di dichiarare il non doversi procedere per intervenuta prescrizione e ciò per evitare uno spreco di energie processuali e relativi costi (inizio di giudizio di impugnazione), che graverebbe ingiustamente sulla collettività.

E’ del tutto evidente che la certa condanna, che il Tribunale meneghino si accinge a pronunciare pur sapendo che sarà riformata in appello, servirà ai magistrati politicizzati per denigrare ancor di più il Presidente del Consiglio nella lotta che da più lustri stanno conducendo contro lo stesso; e servirà anche ai numerosissimi giustizialisti, i quali sono in febbrile attesa dell’evento: potranno dire che Berlusconi è colpevole del grave delitto contro la giustizia, ma si è salvato per il rotto della cuffia, cioè con la prescrizione. A questa deteriore cultura (alla Di Pietro) si attengono anche alcuni magistrati, tra i quali quelli preposti al giudizio contro Berlusconi. Ora è ben vero che il giudice non è responsabile giuridicamente dei propri atti, perché una disposizione incostituzionale (lesiva del diritto di uguaglianza) della legge n. 117 del 1988 stabilisce che nella interpretazione della legge e nella valutazione dei fatti e della prova non si applicano le norme sulla responsabilità dei magistrati, quand’anche essi siano stati in colpa grave o abbiano agito con dolo. Ma sussiste la responsabilità disciplinare, prevista dal decreto legislativo n. 109 del 2006, che si ha anche quando il magistrato abbia agito per fini estranei ai doveri ed alla funzione giudiziaria.

Ed a prescindere dalla responsabilità giuridica, che c’è, ma che quasi certamente non sarà applicata, non credono quei giudici di contribuire con la loro condotta, contraria ai loro doveri e tesa a fini estranei alla funzione di giustizia, di provocare un ulteriore calo di fiducia del popolo nella magistratura e quindi nella giustizia? La risposta non pare difficile.

Marsilio
Zona di frontiera, 28 Settembre 2011


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