PIANGI CHE BEN HAI DONDE

Chiunque ha un sogno dovrebbe andare in Italia. Non importa se si pensa che il sogno è morto e sepolto, in Italia, si alzerà e camminare di nuovo.
(Elizabeth Spencer, The Light in the Piazza, 1960)

Piangi, che ben hai donde, Italia mia.
(Giacomo Leopardi)

Lasciatemela ricordare così com’era, che i piccoli conservano bene i ricordi e con i ricordi una parte delle cose che non ci sono più. Il tempo è una strada tortuosa: sappiamo da dove partimmo, ma poi, lungo il cammino, pare che nulla cambi, solo qualche dettaglio, un’ombra spostata da un angolo, un muro che c’era e non c’è più, la voce d’un ambulante che si spegne, fino a momento in cui si giunge in un posto che appare del tutto sconosciuto, irriconoscibile ed incomprensibile. Perfino la lingua non è più la stessa. Cosa diranno mai quai saccenti parvenus che  occupano indebitamente quella scatola delle meraviglie che fu inventata mentre andavamo a scuola e si chiamava televisione? E dove sono andati quai sognatori incalliti che sgobbavano duro senza mai fermarsi, tacendo, tenendo sul cuore il portafogli con le foto dei bambini e l’immagine della Vergine? in quale insidioso tornante disconosciuto dal sole si sono persi i maestri di scuola dall’eloquio semplice e poetico e il sorriso modesto, gli uomini di legge che giuravano il vero, la bonaria rudezza dei medici di famiglia, la promiscuità domestica dei mestieri d’un tempo, l’alacrità dei padri, il rispetto dei figli e la commovente bellezza delle nostre campagne, del nostro chiasso e dei nostri silenzi nei borghi e tra le rovine antiche?

Fu Italia prima di esserlo e dopo, a lungo. Lo fu anche nel dopoguerra, quando gli Italiani si rimboccarono le maniche e con il sudore lavarono le colpe di altri. Non ci riconosciamo più in questa strana terra natia, dove un idioma dai diversi accenti fioriva sulle labbra di tutti, dalla Sicilia alle Alpi, era “Italia” per ogni viaggiatore, imbattibile nel commerciare, nel sedurre, nel raccontare. Un’idea, più che una Nazione. Alexandre Dumas lo aveva capito, trasformando l’impresa dei mille in un’epopea letteraria con l’abilità che lui aveva di “prendere la storia, metterla incinta e farle sfornare pargoli.”

L’agonia è cominciata quando l’ideologia ha distrutto l’idea e da allora che, imprigionata la cultura, son rimaste le divisioni. Una Nazione che non sa più perchè è nata è facilissima preda di ogni invasore. Ed eccoci qui, a far i conti con il deserto culturale ed estetico che abbiamo creato, incapaci di costruire un futuro perchè abbiamo dimenticato il passato. Nulla nei cervelli rinsecchiti della classe dirigente, e nulla anche nei nostri. I governanti, al soldo dello straniero, ci tramortiscono con parole inglesi con l’aria di dire che se non capiamo, peggio per noi, i delegati del popolo si affrettano a raschiare il fondo del barile, ognuno per sé, Dio per tutti. La dittatura è palese: siamo monitorati, indottrinati, indeboliti ed anche disprezzati. Per tenerci buoni la stampa di regime ci getta caramelline avvelenate di ogni tipo. Qualche ladro preso a caso – non sia mai si capisse che è il sistema il padre di tutti i ladri -, le donnine allegre, destra, sinistra, spread, choosy, spendingreviù, l’indignazione per un prefetto stronzo (tautologia?), la condanna di un intero comitato scientifico reo di non aver frequentato la scuola di Harry Potter e se proprio sono a corto di argomenti, ricompare l’ottimo Misseri: una maschera tragicomica per tutte le stagioni. Tutto questo serve a deviare il senso critico nei vicoli ciechi, tenere occupato il cervello, ove mai, svegliati dall’incantamento, ricominciassimo a pensare, e a guardarci intorno.

I Romani furono grandi guerrieri e grandi politici. Noi, pronipoti bastardi, non siamo né l’uno né l’altra cosa. Allo straniero, tranne rare eccezioni, abbiamo sempre applaudito per poi piangerci addosso. Non sappiamo impugnare la spada e non sappiamo difendere i nostri confini, quei solchi invisibili che il cuore e la ragione tracciano insieme per circoscrivere un carattere, un’architettura, una poesia comune. “L’Italia chiamò”, ma noi non rispondemmo, affaccendati nelle nostre minuscole risse artificiali. Ed ora siamo morti. Tutto questo brulicar di chiacchiere è solo il frastuono dei vermi che si cibano dei resti, ma l’Italia è un’idea e le idee non possono morire. Resterà nei suoi ruderi e nelle splendide, deserte biblioteche, nei selciati risonanti dei vecchi borghi che sopravviveranno. Materia di ricerca per omini globales del tremila. Solo un miracolo del pensiero potrebbe oggi resuscitarla. Ma il pensiero, dov’è?


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