GIUSTIZIA: I NODI DA SCIOGLIERE

La riforma della giustizia è un discorso nient’affatto serio, inquinato da interessi palesi e occulti e da irriducibile divaricazione ideologica/strategica tra il centrosinistra (sedicente progressista) ed il centrodestra (sedicente liberale). L’attenzione maggiore è rivolta all’assetto della giustizia, cioè alla struttura giudiziaria: si discute se la magistratura sia un potere dello Stato oppure una corporazione di impiegati. La discussione è oziosa perché i due termini non sono alternativi ma complementari in quanto il potere designa la funzione, l’ordine disciplina i soggetti deputati alla funzione.

Deve dirsi, però, che l’aver affidato il temibile potere giudiziario ad un ordine burocratico, quindi esente da rendiconti al popolo e, comunque, senza contrappesi reali, i Costituenti non sono da lodare, anche perché a quest’ordine burocratico concessero prerogative sovrane, le quali impediscono collegamenti con gli altri poteri e vietano controlli esterni. Si aggiunga, poi, che non solo l’ordine ma anche i singoli giudici sono dotati di indipendenza assoluta (soggetti soltanto alla legge): in nessuna parte del mondo, in nessuna Costituzione è previsto un tale abnorme potere, una vera anomalia democratica. In Inghilterra, che è la più antica liberaldemocrazia, i giudici sono nominati dal potere politico, tra gli avvocati di provata esperienza, con la clausola during good behaviour (finché fanno bene) e possono perciò essere posti sotto accusa (impeachment) per i loro comportamenti e, quindi, destituiti. I giudici minori (magistrates) sono nominati dal Governo.

Inoltre, ciò che “non fecerunt barbari fecerunt Barberini”: la classe politica postcostituzionale ha previsto per i magistrati anche la irresponsabilità giuridica per i danni da loro cagionati, ancorché per colpa grave o per dolo, ai cittadini coinvolti nell’accertamento giudiziario. L’opinione pubblica pensa, non a torto, che i magistrati non pagano mai per i propri errori.

Dovremmo tenerci, dunque, magistrati incapaci? e, per giunta, dovremmo adorarli come cose sacre?

Ecco delineato un primo nodo. I Costituenti s’illusero che concedendo prerogative assolute alla magistratura fosse assicurata la neutralità della giurisdizione: non immaginarono che l’indipendenza e la incontrollabilità dei magistrati, sarebbe stata invece causa dello scadimento della giurisdizione e del deleterio fenomeno della politicizzazione. E, l’organo che dovrebbe far cessare l’anomalia del giudice incapace o partigiano, cioè il CSM, titolare del potere disciplinare sui magistrati, non funziona affatto perché è esso stesso politicizzato.

Un secondo e non meno importante nodo da sciogliere è il rapporto giudice-pubblico ministero: la vigente unione organica era prevista sia dall’ordinamento giudiziario del 1865 che da quello fascista del 1941 (era detto ordine giudiziario, unione organica di giudici e pubblici ministeri), ma il pubblico ministero – organo del potere esecutivo istituito presso gli organi giurisdizionali – era diretto, nelle sue molteplici funzioni, dal Ministro di giustizia, come è in tutti Paesi. Sennonché il 31 luglio 1946 Palmiro Togliatti, leader del Pci, Ministro di giustizia del Governo De Gasperi, concesse le guarentigie della magistratura, tra le quali la sottrazione del pubblico ministero alla direzione ministeriale (fu battezzata la via italiana al pubblico ministero). Si trattò di un provvedimento illegittimo (un vero colpo di mano), non solo perché venne emanato da un Re in stato agonico (il referendum istituzionale, due giorni dopo la firma del decreto di concessione delle guarentigie, fece decadere l’istituto monarchico), ma soprattutto perché era escluso dalla delega al Governo legiferare in materia costituzionale. Senza che di un pubblico ministero acefalo, da tutti indipendente e del tutto irresponsabile, non v’è traccia negli ordinamenti democratici.

I Costituenti rimisero al legislatore il compito di stabilire, dopo il chiarimento sulla figura, di quali garanzie il pubblico ministero dovesse godere (art. 207), fermo restante transitoriamente le garanzie previste per il medesimo dal decreto togliattiano. La VII disposizione transitoria della Costituzione, più in generale, stabiliva poi che dovevano continuare ad osservarsi le norme di ordinamento giudiziario all’epoca vigente, ma fino all’emanazione di un nuovo ordinamento conforme a Costituzione. Ciò significava che l’ordinamento in vigore conforme a Costituzione non lo era.

E’ accaduto però – solo in Italia, culla del diritto, poteva accadere – che l’emanazione di un nuovo ordinamento giudiziario conforme alla Costituzione è stata rimandata alle calende greche. Persino quando nel 1988 (quarant’anni dopo!) fu chiarita col nuovo codice di procedura penale la figura del pubblico ministero nel senso di parte processuale, distinta e distante dal giudice, fu mantenuta, contro la Costituzione e contro la legge delega, l’ordine giudiziario. Questa volta il colpo di mano fu dei magistrati che componevano in stragrande maggioranza la Commissione ministeriale che avrebbe dovuto adeguare l’ordinamento giudiziario al nuovo modello processuale: quei magistrati agirono nell’interesse della loro corporazione, all’insegna dell’ “unione fa la forza”. Infatti, nel 1993 Piercamillo Davigo del pool “mani pulite” poteva dire: «possiamo rivoltare l’Italia come un calzino». Avanti ogni Procura dovrebbe, perciò, essere scritto “hic sunt leones”.

E le stelle sono state a guardare, e stanno ancora a guardare: si è lasciato che un manipolo di magistrati, spalleggiato, però, da tutta la loro corporazione e dai comunisti, facesse impunemente scempio dei poteri pubblici e del sistema democratico, sovvertendolo.

Altro nodo da sciogliere riguarda il carattere dell’azione penale. La Costituzione impone al pubblico ministero l’obbligo di esercitarla (art.112): il principio voleva essere strumentale al fondamentale principio dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Ma nella realtà il principio di obbligatorietà si è rivelato utopistico, mera ipocrisia ufficiale. Le statistiche dicono impietosamente che solo il 20/30% dei reati commessi entra nell’input dell’attività di persecuzione penale: il rimanente non viene perseguito perché ne restano ignoti gli autori, essendo insufficiente ed inefficiente l’attività della indagine di polizia e pubblico ministero.

Nel 1987 il Consiglio dei ministri europei emanò una Raccomandazione agli Stati membri perché adottassero il principio di opportunità dell’azione penale o, quanto meno, di mettere a punto strumenti che andassero in quella direzione. In Italia la Raccomandazione cadde nel vuoto: il principio di obbligatorietà è stato sempre mantenuto e difeso perché giustifica l’irrazionale indipendenza assoluta del pubblico ministero dalla direzione politica. Invece, occorrendo adottare la scelta di quali reati assoggettare all’azione penale o, quanto meno, a quali reati dare la priorità, la competenza è senza dubbio del potere politico, onde la razionale direzione ministeriale del pubblico ministero, come avviene ovunque, da sempre. Ma noi abbiamo la Costituzione più bella del mondo!

Indicati, sia pure per cenni, i più importanti nodi della riforma della giustizia, azzardo qualche suggerimento. Per risolvere il problema della responsabilità del potere giudiziario si deve scegliere: magistratura burocratica – cioè corpo di giudici nominati a seguito di concorso aperto a tutti i giovani laureati -: in tal caso le attuali prerogative non possono essere mantenute, almeno nella loro assoluta interezza, perché rende la magistratura non conforme ai principi del sistema democratico che – si ripete -, è fondato sulla responsabilità nei confronti del popolo sovrano (all’Assemblea costituente l’on. Luigi Preti ammonì: avremo uno Stato nello Stato o, quanto meno, una casta chiusa, intangibile). Oppure una magistratura elettiva, se non per tutti i giudici almeno per i capi degli uffici giurisdizionali, i quali, senza ledere troppo l’indipendenza dei magistrati controllino la regolarità del funzionamento della giustizia. Ovviamente occorre una modifica della Costituzione con il procedimento di cui all’art. 138 della stessa.

Per la necessaria separazione del pubblico ministero dal giudice non basta la separazione delle relative carriere perché, oltretutto, resterebbe la colleganza tra i soggetti e prevarrebbe lo spirito di corpo, ancorché si addivenisse alla divisione in due del CSM. Occorre, quindi, la separazione dei relativi corpi e all’uopo basta una legge ordinaria che istituisca l’ordine della magistratura, comprensivo dei soli giudici come prevede la Costituzione (art. 202-204).

Occorre abrogare il principio di obbligatorietà dell’azione penale ed emanare una legge comune che disciplini il principio opposto, di opportunità. Sarà il Ministro di giustizia, responsabile verso il Parlamento (che a sua volta è responsabile verso il popolo sovrano) delle scelte di politica criminale. Ovviamente il Ministro di giustizia detterà le linee guida, ma non potrà certamente interferire nelle indagini che si svolgono secondo le direttive generali.

Certo è che il pubblico ministero irresponsabile non può sostituirsi al potere politico, manca ad esso la specifica competenza in ordine alle scelte di politica criminale con valore erga omnes e, soprattutto manca, la responsabilità per le scelte che compie.

Fino a quando la classe politica chiuderà gli occhi di fronte all’anomalia di una magistratura incostituzionale? e soprattutto, di fronte all’anomalia della via italiana al pubblico ministero?

Il che è come dire: fino a quando la giustizia dipenderà dagli interessi dei comunisti?

Marsilio
Zona di frontiera, 23 Agosto 2013


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