Ogni restituzione ad integrum – “restauro” d’oggetti d’arte, conservazione di complessi storici, etc. -, presuppone una precisa ʺteoriaʺ.
Io credo, con Rosario Assunto (passim) e con Proust (Le temps retrouvé), che tale teoria sia semplice: l’autore dell’opera e l’opera stessa valgono molto più di quanto valgano la persona e la minerva del restauratore. Pertanto la difesa dell’ambiente storico-artistico inizia educando noi stessi all’amore ed alla modestia. La filologia della conservazione e del restauro è tutta qui.
A Napoli invece si è indecentemente esagerato con i due opposti estremi: l’incuria/distruzione, o il restauro creativo che dà spazio alla vanità degli addetti. Esempi inauditi: prendiamo a caso Castel Sant’Elmo. Si è ripianato il profilo del castello, che era meravigliosamente proteso verso l’alto alla punta sud-ovest del bastione; si è creato, sfondando la base, un tunnel per far defluire gli spettatori di eventuali spettacoli (utilizzazione sociale del manufatto); è stata sventrata con enormi finestroni la stupenda fiancata sud-est (ora in pericolo di crollo!), trasformando la minacciosa macchina di guerra in un belvedere per turisti alquanto fessi. Oppure la chiesa della Maddalena (undicesima chiesa gotica di Napoli) che fu rasa al suolo per creare spazio alla speculazione edilizia (!)…
In generale, fin dagli anni ’30 del secolo scorso è stato semicancellato uno dei caratteri maggiori della città: il suo “misterioso” gigantismo. Tendenza che forse viene addirittura dai tempi classici: sconfinato è l’antico acquedotto, risalente alla Napoli greca, che serpeggia sotto la città, e mastodontici i resti semisepolti del Teatro di Augusto e dei suoi annessi, che sono talmente vasti da deformare il terzo decumano, via Anticaglia, e molti dei curvi vicoli dell’intorno. La tendenza alle misure mastodontiche fu raccolta dagli Angioini (Santa Chiara), dagli Aragonesi (Vicarìa), e naturalmente dai Borboni, che non se lo fecero dire due volte: ed ecco i mastodontici “Granili” di Ferdinando Fuga, mirabolante edificio color rosso scuro, lunghezza più di mezzo chilometro (per la precisione, metri 560), raso al suolo senza alcun ragionevole motivo, insieme all’annessa “casa cinese” e parte, credo, della ferriera di Pietrarsa, fucina della prima ferrovia d’Europa. Altre concezioni mastodontiche: l’Albergo dei poveri, ancora del Fuga; le 4 o 5 Reggie della città: il Maschio Angioino, il Palazzo Reale, quelli di Caserta, di Portici, di Capodimonte… Il Castel dell’Ovo, vero e proprio villaggio munito di piazza, porticati, chiesa etc., issato sull’isolotto di fronte a Monte Echia. Gigantesche anche le Catacombe di san Gennaro, le più vaste della Cristianità. E, tornando alle insensate demolizioni: le eleganti ferriate ottocentesche della Villa Reale (circa 2 chilometri, sommando lati lunghi e brevi dei 700 metri dell’area), recentemente scardinate e sostituite da ridevoli intrecci di salcicce metalliche. In periferia, s’è cancellata la principesca linea di sei filari di enormi platani, lunga chilometri, di via Carlo III°, che univa la Reggia di Caserta al villaggio circolare di san Nicola la Strada, ora scomparso, per poi proseguire verso il centro della città… Viene da piangere.
Ci sono poi la pioggia dei ladrocinî e la grandine delle demolizioni spicciole. Esiste una pubblicazione d’un centinaio di pagine (Furti d’arte a Napoli: ne possiedo un esemplare, devo ripescarla), che elenca gli infiniti furti di quadri, oggetti di culto, statue, scomparsi da chiese e abitazioni. Esempi: le sfingi della statua del “Nilo” a Spaccanapoli; le cinque fontane, con inserti di marmo bianco sul nero della lava vesuviana, della bellissima Piazza del Carmine ora semi-distrutta. La chiesa della “Scorziata” e il monastero “delle Trentatré”, divenuti depositi di ordure. O le eleganti linee bianco-nere di palazzo Santangelo a Spaccanapoli, trasformato dai ladri di marmo in un nerastro rudere…
Un esempio di restauro improprio fu la sabbiatura dell’arco del Laurana al Maschio Angioino, ch’ebbe il risultato di ʺammosciareʺ le fattezze di statue e bassirilievi. Restauri falsificanti: la Torre Ranieri a Villanova, tipicamente partenopea, è stata strigliata a dovere, e costellata di bucranî e altri orpelli toscaneggianti. Addio carattere! E siccome – come avvertono da opposte sponde il concetto puro di Hegel e la pura intuizione di Cézanne – è proprio il carattere ciò che costituisce la cosa, ecco che alle cose scaratterizzate si puó dire addio.
Varie chiese (Napoli ne aveva 350, avverte il Galante) furono murate per difenderle dai saccheggiatori; altre sono state demolite in parte, o del tutto se danneggiate dalla guerra (come la chiesa dei Fiorentini), altre ancora, intatte, vennero irragionevolmente distrutte (esempio già più sopra menzionato della Maddalena). Tra i templî sfigurati sono da notare Santa Maria Vertecoeli, semisfasciata per sistemare nella navata un trasformatore dell’Enel; la chiesa di Bernardino Rota… Lo stupendo, asimmetrico monastero di sant’Eframo vecchio, fantasioso sogno d’un hoffmanniano Consigliere Crespel partenopeo, è stato “messo a norma” e trasformato in una sorta di insignificante palazzo per uffici, ed idem s’è fatto per la masseria non so se trecentesca o quattrocentesca, a nord del nuovo stadio a via Terracina, degna di ospitare Vardiello e altri eroi di Giambattista Basile… Quanto fascino culturale, quante meditazioni d’arte buttate via per sempre!
Ma oggi, a mio modesto avviso, è in corso un’altra grave manomissione, o falsificazione, effettuata a tappeto su tutto il centro storico: l’esiziale invasione della pacchianeria turistico-commerciale di pessimo gusto, in stile prout-prout direbbero a Parigi, stile “chiattillo” diciamo noi a Napoli, con incluso il finto dialettalismo di parole e cose in uso per turisti di terz’ordine. Tale processo di banalizzazione e di conversione “alla caprese” è esiziale, proprio a Napoli dove, diversamente da quanto lascerebbero credere i banali pregiuzi folkloristici, il vero festoso carattere popolare era, ed è ancora a volte, in costante dialogo con il silenzio assorto della Napoli “sconosciuta”. Che ancora prevale, perché la città nel suo insieme è ancora ignota, per bellezza e complessità, persino ai suoi abitanti. La vecchia Napoli, quella di san Giovanni a Carbonara e del purpo che sta sott’a la preta, fregio che la tradizione popolare immagina apposto in memoria dell’uccisione di Sergianni Caracciolo, resiste tenace nei nostri commossi ricordi. E sta diventando solo un fantasma mnemonico la mirabolante capitale che tra ‘400 e ‘500 ebbe il più vasto centro storico d’Europa.
Tu sai quando fosti, Napoli, corona?…Quando regnava Casa di Aragona!
Conclusione: Assunto e Proust hanno ragione mille volte: il restauro comincia nei nostri cuori. Volete salvare quel che resta di Napoli? Cominciate col restaurare voi stessi, armandovi contro i conformismi, il falso colore locale delle mode e la volgarità dei tempi. L’eterno lo si cura non col transeunte, ma con l’amore e il buon gusto, che animano il difficile, affettuoso compito della cura quotidiana.
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