LA CRISI CHE UCCIDE

“Malthus, affermando che le bocche si moltiplicano geometricamente e il cibo solo aritmeticamente, dimenticò che la mente umana era anch’essa un fattore nell’economia politica, e che i crescenti bisogni della società sarebbero stati soddisfatti da un crescente potere di invenzione.” (Ralph Waldo Emerson)

Da inizio anno, almeno 23 sono stati i suicidi di artigiani, imprenditori, lavoratori, per la crisi economica, per i debiti, per il non riuscire a sbarcare il lunario, per quello che potremmo definire “stalking di stato” (come definire altrimenti l’azione di quella vera e propria macchina da guerra che è Equitalia?).

Nell’indifferenza, nella solitudine, nella distanza di un mondo politico meschino che pensa solo a come riciclarsi, senza nessuna vera autocritica o ripensamento, si consuma così la tragedia di tante famiglie italiane, per una pressione fiscale divenuta intollerabile e la presunta assenza di vie d’uscita alternative alla crisi, conclamata da media che danno per scontata la tendenza alla “decrescita infelice”. L’impressione è che al suicidio demografico del nostro continente – su cui si è appuntata negli scorsi anni l’attenzione di intellettuali come Oriana Fallaci nonché dell’attuale come del precedente pontefice – si stia aggiungendo anche questo dramma, in effetti preannunciato dal primo, segno della decadenza e fine di una civiltà, dal momento che il modo normale di morire delle civiltà è proprio la caduta demografica.
Si pensi anche solo alla fine dell’impero romano: i barbari giunsero quando esso fu fiaccato dagli aborti, dall’infanticidio, da una forma antica di eutanasia che consisteva nell’abbandonare gli anziani, senza curarli né nutrirli.

Poi, si diffuse anche il suicidio dei disperati, i “dannati della terra”. Ad arrestarlo, ad impedire che l’uomo mediterraneo si estinguesse, è vero, fu il cristianesimo, che in qualche modo restituì fiducia alle genti di quei luoghi, speranza, voglia di lottare.
Come? Nietzsche ha detto la sua sul punto: ‎”Aforisma 131. Cristianesimo e suicidio. Del desiderio di suicidarsi enorme al tempo del suo sorgere, il cristianesimo ha fatto una leva della sua potenza: lasciò sopravvivere soltanto due forme di suicidio, le travestì di altissima dignità e di supreme speranze, e proibì tutte le altre in una terrificante maniera. Furono però permessi il martirio e il lento suicidio dell’asceta”. (Nietzsche, La Gaia Scienza).

E’ opinione di chi scrive che il tedesco non abbia mai davvero capito fino in fondo il cristianesimo, anche se un indubbio elemento di verità, in questo aforisma, v’è (ne parlerò dopo). L’uomo, per il cristiano, è nato per dare la sua vita, per gli altri, ma v’è una bella differenza tra il donare la vita e il togliersela! Il suicida, nel suo disprezzarla, fornisce un modello agli altri: “odiate la vita come me”. Implicitamente si pone come esempio ed incita altri disperati a commettere lo stesso atto. Dice: “la vita è un inferno, io solo sono il padrone di essa, posso mettere fine a questa tragedia immane che non so tollerare”.

Nietzsche credeva alla “risoluzione cristiana di trovare brutto il mondo” e denunciava così l’ascetismo come una fuga dalla vita caratterizzata da “uno sguardo bilioso e pieno d’odio che si volge contro lo sviluppo fisiologico, in particolare contro quella che ne è espressione, la bellezza, la gioia (…)”. Basta aver ben in mente l’insegnamento del poverello di Assisisi per vaccinarsi definitivamente contro questa idea del cristiano, che al più può attagliarsi al puritano.

Ma San Francesco, si dirà, non era un ascetico… Lo erano però S. Giovanni della Croce, S. Teresa D’Avila, la carmelitana Maddalena de Pazzi e tanti altri, per i quali il martirio e la “soluzione ascetica” non erano estranei alla contemplazione del mondo, delle cose terrene, di cui però i grandi mistici volevano vedere anche l’origine, la fonte… Del resto il panorama della vita spirituale offertoci dai santi e asceti cristiani si è sempre dibattuto tra queste due scene, non slegate tra loro, un volgersi all’eterno, uno sprofondare nella divinità, ed uno svolgersi nel tempo, in ossequio ad una visione dinamica e tragica, quella dell’Incarnazione del Verbo e della sua Passione, dell’itinerario dell’uomo a Dio, con chiave di lettura l’amore.

C’è, però, anche del vero in ciò che l’autore del La Gaia Scienza afferma. Probabilmente senza il cristianesimo, senza quello che il grande teologo Sergio Quinzio vedeva come un sublimare nell’attesa dell’aldilà la “resurrezione della carne” promessa da Gesù e dal primo cristianesimo, l’uomo del mediterraneo non sarebbe sopravvissuto a quella crisi. Per secoli il cristianesimo lo ha tenuto in vita, gli ha conferito una forza in grado di fargli affrontare le peggiori avversità, con la promessa di un altro mondo, un’altra vita, altrove.

Ma il Regno dei cieli è qui, in mezzo a noi, o almeno inizia qui. Siamo noi. Questo dice il Nazareno. Lo conferma in qualche modo Benedetto XVI nel suo bel libro su Gesù. Solo che secondo il citato Quinzio, nel corso dei secoli il cristianesimo – ellenizzandosi, orientalizzandosi, spiritualizzandosi – ha finito per squalificare questo mondo, le cose terrene, la carne. C’è chi ha spiegato ciò con la difficoltà per i cristiani posti di fronte al mancato inverarsi della promessa di resurrezione, dovuto agli ostacoli insormontabili opposti dalla terra nel mediterraneo, che non rendeva, che era habitat ostile di un mondo contadino che non disponeva della tecnologia che, invece, abbiamo oggi.

Secondo l’autore de “La gola del leone”, il cristianesimo sarebbe invecchiato nell’attesa di sanare lo scandalo della Croce, del Dio che si immola, giacché la soluzione non solo non si avvicinava, ma diventava sempre più recondita, fino a sparire del tutto dal discorso cristiano ufficiale, che faceva sempre di meno riferimento all’Avvento come Resurrezione dei morti e sempre di più alla vita ultraterrena dell’anima (il trionfo dell’ellenismo di cui un po’ tutta l’opera di Quinzio parla). La tecnica e l’ingegno umano – da non idolatrare ma neppure da demonizzare, semmai da considerare promanazione della spiritualità dell’uomo e dunque doni del Signore – oggi consentono di vivere in questo mondo senza più gli immani problemi di un tempo; permetterebbero cioè di superare l’attuale crisi maltusiana. C’è bisogno di crescita, magari pensata, più lenta, come indica Geminello Alvi, ma non possiamo sottrarci alla sfida dell’oggi in ossequio ad un malthusianesimo che è l’opposto dell’evangelico “crescete e moltiplicatevi”, pena il definitivo soccombere della nostra civiltà.

In Italia, le ricette dei “liberisti” della Bocconi (virgolette d’obbligo), sostenuti dai maggiori partiti, sono l’esatto contrario: si è giunti alla creazione di uno stato di polizia tributaria che col liberismo vero nulla ha a che vedere, con un fisco sempre più opprimente, una criminalizzazione inaudita di chi non paga le tasse, ritenuto vero e proprio “nemico interno” alla maniera dei kulaki nel “comunismo di guerra”, da annientare in primis moralmente (a farlo fisicamente ci penserà da sé), da additare al pubblico ludibrio, come nel peggior incubo orwelliano…

Se a ciò aggiungiamo le nefaste scelte degli anni scorsi in campo energetico, il quadro diventa davvero tetro e induce a pensare che non vi sia futuro per l’Italia, come per questa Europa che pensa in piccolo, senza sangue né anima (chè non v’è dubbio: il destino di essa è legato a quello del nostro paese)… E non se ne uscirà senza un politico che ridia speranza, che abbeverandosi al meglio della nostra spiritualità restituisca fiducia, ai popoli del mediterraneo, nella carne, nella vita, contro ogni nichilismo.

Mario Colella
Zona di frontiera, 15 Aprile 2012


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