La Procura della Repubblica milanese ha richiesto al giudice per le indagini preliminari di decretare il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi – cui si addebita il concorso nel reato di rivelazione di segreto istruttorio, a sensi dell’ 326 cod. pen. (Il Giornale aveva pubblicato una conversazione telefonica, intercettata e coperta da segreto, tra Fassino e Consorte, nel corso della quale il primo aveva detto: allora abbiamo una banca!). Alcuni miei amici, curiosi di conoscere gli “arcana” della nostra giustizia, mi hanno chiesto di spiegare loro il perché della richiesta di rinvio a giudizio quando la stessa Procura pochi giorni prima aveva chiesto l’archiviazione. Ho risposto che non ero in grado di esaudire la domanda non conoscendo gli atti. Alle loro insistenze ho detto che, secondo procedura, se il pubblico ministero ritiene infondata la notizia di reato (art. 408 cod. proc. pen.), o inidonei gli elementi per sostenere l’accusa (art. 125 delle disp. di attuazione), deve fare richiesta di archiviazione al giudice per le indagini preliminari (Gip). Il quale, se non ritiene di disporre ulteriori indagini, ordina al pubblico ministero di “formulare l’imputazione”, vale a dire di esercitare l’azione penale. Ecco perché la Procura milanese ha dovuto cambiare atteggiamento, non più archiviazione della notizia di reato, ma esercizio dell’azione penale (nel linguaggio forense questo si chiama imputazione coatta).
Ho azzardato una ipotesi: se si deve prestare fede al pubblico ministero che chiese l’archiviazione, si deve avanzare il sospetto che sia prevalsa nel Gip la logica del “processare il nemico”, ancorché il processo possa prevedersi fin d’ora a conclusione assolutoria. L’imputato, Silvio Berlusconi, avrà comunque un danno, oltre che per la gogna e le conseguenze politiche, per le sofferenze anche psichiche che il processo comporta per qualunque imputato: Francesco Carnelutti, grande avvocato, diceva che “purtroppo la giustizia umana è fatta così che non tanto si fanno soffrire gli uomini perché sono colpevoli quanto per sapere se sono colpevoli o innocenti” (in: “Le miserie del processo penale”, Edizioni Radio Italiana, 1957, capitolo V, pagina 46). E all’epoca non era ancora esploso il deleterio fenomeno della politicizzazione nella magistratura: fenomeno che fece scrivere a Piero Calamandrei (altro grande): “I giudici, per godere la fiducia del popolo non solo devono essere giusti ma anche neutrali rispetto alla lotta politica perché l’opinione pubblica è convinta, non a torto, che prendere parte nella politica voglia dire, per i giudici, rinunciare alla imparzialità della giustizia” (Calamandrei, ”Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, editore Ponte alle Grazie, 1957, e Paolo Barile, nella introduzione, aggiungeva: “…il pericolo, nuovo, che incombe oggi sui magistrati è la politicizzazione o peggio la loro partitizzazione….”).
Soddisfatti, ma non del tutto della mia risposta, gli amici hanno posto altre domande: perché un giudice – cui è peculiare la tutela dei diritti delle persone – può obbligare il pubblico ministero ad incolpare l’indagato? e perché l’archiviazione deve essere decretata da un giudice e non possa invece essere disposta dal titolare dell’azione penale, cioè dal pubblico ministero? Domande di grande importanza, cui però non è possibile rispondere esaurientemente e, tanto meno, in poco spazio, quanto è consentito ad un articolo; e tuttavia non mi sono sottratto alle domande e ho dato una possibile spiegazione al riguardo.
Ho cominciato con brevi cenni storici: nel regime monarchico, ad un tempo in cui l’archiviazione doveva essere disposta dal giudice istruttore (art. 179 del cod. proc. pen. 1913) succedette la normativa opposta, della non necessità del giudice per l’archiviazione, salvo il controllo gerarchico, cioè del Procuratore generale presso la Corte di appello (art. 74 cod. proc. pen. 1930); ma nel periodo postfascista, nel torno di tempo precedente la Costituzione, venne reintrodotto il regime del 1913 (cioè: “se il giudice istruttore ritiene di non accogliere la richiesta dispone con ordinanza l’istruttoria formale”). Il codice di procedura attuale (che non prevede più la istruttoria formale) stabilisce che se il giudice per le indagini preliminari non accoglie la richiesta di archiviazione ordina (come già detto) al pubblico ministero di “formulare l’imputazione”, condizione che è assolutamente necessaria all’apertura del processo, in attuazione del tradizionale principio “ne procedat judex ex officio”. Nel vecchio sistema processuale penale si riteneva che l’azione penale iniziasse anche con la richiesta di archiviazione, per cui il rigetto di tale richiesta importava soltanto il prosieguo del processo, sia pure con istruzione formale, vale a dire col passaggio di competenza dal pubblico ministero al giudice nella conduzione della istruttoria.
La ragione che si dà alla necessità del controllo sull’archiviazione è che, stante il principio di obbligatorietà dell’azione penale, occorre accertare se sono effettivamente esistenti i relativi presupposti, di fatto o di diritto. Ma la necessità del controllo sussisterebbe in ogni caso, anche in regime opposto alla obbligatorietà, in regime cioè di opportunità dell’esercizio dell’azione penale (nel 1987 il Consiglio dei ministri dell’Europa Unita emanò una “raccomandazione” agli Stati membri dell’Unione, di adottare il principio di opportunità); anzi il controllo in regime di discrezionalità dell’azione penale si estenderebbe fino alla valutazione di opportunità dell’azione. La necessità del controllo sul pubblico ministero s’impone perché non è plausibile che sia il singolo componente dell’ufficio di pubblico ministero, arbitro discrezionale ed incontrollato, a decidere se si debba procedere, oppure no, all’accertamento della responsabilità penale. Ma il punto più importante della questione è: quale organo è competente? il giudice oppure l’organo gerarchicamente superiore al pubblico ministero agente? vale a dire il Procuratore generale presso la Corte d’appello. E comunque: chi controlla il controllore?
I perché degli amici non finiscono mai, come quelli dei bambini che, essendo spinti da forte desiderio di conoscenza delle cose, avanzano a raffica i perché. Il quesito non si pone sul piano dell’attuale normativa: è il giudice arbitro di stabilire se archiviare o meno la notizia di reato. Ma questa scelta legislativa è plausibile? A giustificarla si dice che il nostro ordinamento giuridico è informato al principio di legalità e che è la giurisdizione competente al controllo di legalità sugli atti del pubblico ministero. Ma è lecito avere delle riserve: è bensì vero che secondo l’impianto costituzionale i giudici, pur essendo soggetti alla legge, amministrano la giustizia in piena indipendenza rispetto ad ogni altro potere dello Stato, ma è anche vero che il pubblico ministero, quale organo del potere esecutivo, è indipendente rispetto agli organi della giurisdizione; attuazione del principio di separazione dei poteri, fondamento del costituzionalismo moderno, che risale a Montesquieu e prima ancora alla dottrina liberale inglese del sec. XVII°. Del resto, se si esaminano le Carte sopranazionali del tempo successivo alla seconda guerra mondiale si scoprirà che “il tribunale indipendente ed imparziale” ha il fine, tra l’altro, di accertare la “fondatezza di ogni accusa penale” (art. 10 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, 1948) e allo stesso modo, nei medesimi termini, dispone sia la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, 1950 (art. 6), sia il Patto internazionale sui diritti civili e politici, 1966 (art. 14): in altri termini a livello internazionale non si trova affermato che il giudice è guardiano della legalità dell’ordinamento giuridico. E’ la legge che stabilisce i compiti ed i limiti, del potere giurisdizionale, peraltro nel rispetto del principio essenziale della separazione dei poteri statali. Ed è stabilito a livello costituzionale che il giudice è soggetto alla legge (art. 101, comma 2), e che il pubblico ministero resta organo del potere esecutivo, pur con dovute garanzie (art. 107, comma 4).
Ma l’Italia è vittima (ancora) dell’egemonia culturale comunista, che ci ha allontanato dal contesto delle democrazie efficienti e garantiste. A cominciare da Togliatti – che, da Ministro di giustizia nel 1946, sottrasse il pubblico ministero alla direzione ministeriale, attraendolo nell’orbita del potere giudiziario – si è verificata una vera e propria escalation culturale negativa, giunta fino a ritenere che il ministro di Giustizia non debba avere nessun potere o ingerenza in ordine all’amministrazione della giustizia; e si è pervenuti così a creare quel mostro giuridico, di cui si è detto avanti, cioè del giudice che ordina al pubblico ministero di promuovere l’azione penale mediante la formulazione dell’accusa. Essendo il giudice, in quanto burocrate, irresponsabile politicamente ed altresì esente da responsabilità civile per i danni che cagiona alle persone coinvolte nell’accertamento penale e, soprattutto, essendo esente da controlli esterni, si è configurato un giudice autocrate all’interno del sistema democratico. Purtroppo la classe politica non si è mai resa conto dell’anomalia del nostro sistema giudiziario, difeso ad oltranza dalle toghe, anomalia cui la classe politica, neppure super Mario, porrà mai rimedio.
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