DEL GIUDICE E SUA RICUSAZIONE

Possono chiamarsi “giudici” i componenti del Tribunale di Milano che conducono il processo contro Silvio Berlusconi (caso Mills)? L’imputato ha chiesto alla Corte d’Appello di pronunciare la ricusazione di quei giudici e la Corte, ritenuta la non manifesta infondatezza dell’istanza, ha deciso di procedere all’esame del caso, ed ha fissato l’udienza del 18 febbraio prossimo per la decisione in contraddittorio (art. 127 codice procedura penale). Ora, predire il contenuto della prossima decisione è certamente un azzardo (habent sua siderea lites), e tuttavia dovrebbe avere rilievo il convincimento dell’imputato per il quale i giudici (in particolare il presidente del collegio) hanno manifestato la propria opinione colpevolista. Al riguardo vale richiamare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo la quale ebbe ad affermare che deve avere rilievo il punto di vista della persona sottoposta a giustizia, dovendosi creare nella stessa la fiducia che fughi ogni dubbio d’imparzialità del giudice (sent. 1.10.1982, Piersak contro Belgio). Invero, l’istituto della incompatibilità e quella della ricusazione sono iscritti nell’area delle disposizioni preordinate alla salvaguardia della terzietà del giudice, come ha stabilito la Corte costituzionale (sent. n. 331/1997).

In effetti il comportamento del Tribunale – tra l’altro la irragionevole accelerazione dell’iter del processo nell’imminenza della prescrizione, nonché la compressione del diritto di difesa in ordine all’ammissione di testi a discarico, hanno legittimato nell’imputato il sospetto della volontà dei giudicanti di giungere in tempo a pronunciare la sentenza di condanna (già in pectore), ancorché destinata ad essere annullata dal giudice dell’appello, appunto per prescrizione. Questo atteggiamento colpevolista dei giudici ha un chiaro significato politico, non importando ad essi che la condanna sarà certamente travolta in appello, appunto, per prescrizione; ed incuranti, oltretutto, dell’aggravio del costo del processo (che sarebbe a carico della collettività), per spreco di economie processuali e di risorse materiali, e non a carico dell’imputato non condannato.

Ma il perseguimento di fini estranei ai doveri del magistrato ed alla funzione giudiziaria costituisce anche grave illecito disciplinare (art. 2 del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n.109), oltre che ben s’intende, violazione del diritto di difesa per la mancata escussione di testi a discarico: stupisce pertanto che nessuno di quelli che dovrebbero intervenire (Ministro di giustizia e Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, titolari dell’azione disciplinare) si sia mosso.

Per altro, la strumentalizzazione del processo quando l’imputato è Berlusconi si inserisce nel quadro di una strategia persecutoria (processare il nemico) per fini politici, difficile da negare: invero, il richiamarsi all’obbligatorietà dell’azione penale rappresenta incontestabilmente il paravento dietro il quale i magistrati “militanti” si trincerano. Berlusconi è stato processato a Milano per oltre venti volte nell’arco di quasi un ventennio, senza che si sia giunti alla di lui condanna. La verità è che sia sufficiente il solo fatto del processo, con il carico di gogna che comporta, ad abbattere chiunque costituisce un pericolo per il loro stato privilegiato (dice niente l’esultanza di magistrati per le dimissioni di Berlusconi?). Ed i magistrati possono contare sull’appoggio decisivo dei comunisti, i quali sono indotti a ciò per interesse della loro bottega politica. Insomma, “tu dai una cosa a me io do una cosa a te”. Servirsi della via giudiziaria per eliminare gli avversari politici è stata la strategia adottata fin dal 1946 da Palmiro Togliatti, al fine della costruzione della società socialista ad immagine dell’Urss; in cambio i comunisti mettono la loro notevole forza (non solo parlamentare) in difesa dei magistrati.

Ed allora: se è fondato il sospetto che quei giudici milanesi vogliono fortissimamente vogliono la condanna di Berlusconi per un fine non di giustizia la domanda – se quei giudici, che così si comportano, possano, o meno, essere considerati tali – non è affatto peregrina.

Io son convinto che quelli che chiamiamo giudici (perché così definiti normativamente), tali non sono, ma sono, invece, autocrati, sovraccarichi di poteri ed esenti da controlli democratici e da ogni responsabilità, politica e giuridica (e che, oltretutto, pretendono pure che i loro errori, per colpa grave e persino per dolo, siano pagati dallo Stato, cioè dalla collettività).

Ma, a questo punto è d’obbligo la domanda: quali sono gli attributi in forza dei quali i soggetti cui è affidato il compito di amministrare la giustizia possano essere definiti giudici? Per rispondere adeguatamente a siffatta domanda appare necessario tener presenti le Carte, sia quella nazionale (la Costituzione) sia quelle sopranazionali (Patti internazionali e Convenzioni), più o meno vincolanti per il nostro ordinamento giuridico.

La Costituzione stabilisce all’articolo 111 che ogni processo si svolge, nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice “terzo” e “imparziale”.

La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo – che ha un alto valore morale, non vincolante giuridicamente, approvata dall’Onu nel dicembre 1948 – stabilisce che ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale “indipendente ed imparziale”, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta”.

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, del novembre 1950, all’art. 6 ricalca la disposizione della Dichiarazione Universale, ma in più istituisce una giurisdizione soprannazionale (la Corte di Strasburgo), per giudicare delle violazioni dei diritti, la quale può essere adita anche da qualsiasi persona, vittima della violazione di un suo diritto da parte di uno Stato aderente alla Convenzione.

Il Patto internazionale sui diritti civili e politici, del dicembre 1966, all’articolo 14 recita che ogni individuo ha diritto ad una equa e pubblica udienza dinanzi a un tribunale “competente, indipendente ed imparziale stabilito per legge”. Può affermarsi, allora, che ovunque il giudice, deputato ad amministrare la giustizia, penale e civile, non solo non è parte – perché indifferente agli interessi coinvolti nel processo -, ma è distinto e distante dalle parti, ciascuna portatrice di un proprio interesse, da tutelare nel processo. In definitiva, la tutela di diritti ed interessi, pubblici e privati, è attuata mediante un processo, la cui decisione è rimessa ad un soggetto diverso dalle parti (terzo), il quale deve avere, però, determinati requisiti: oltre ad adeguata professionalità, deve essere neutrale rispetto alle ragioni delle parti contendenti e non deve essere in alcun modo condizionato da chicchessia. Questo è il significato della ricorrente espressione, in ogni Paese civile, di “giudice imparziale ed indipendente”. C’è però da precisare che l’indipendenza del giudice va intesa non solo nel senso di non dipendere da altro potere, specialmente dal potere esecutivo, ma anche da opinioni e pregiudizi che possono turbarne la serenità di giudizio, ovvero da ideologie politiche che sono estranee alla funzione del giudicare. Il fatto che oggi i processi si celebrano prima in televisione dà l’idea del condizionamento che il giudice può subire ad opera dei mass-media e, quindi, rappresenta una degenerazione del processo. Pertanto, non può dirsi imparziale il giudice che deve decidere della fondatezza dell’azione penale di cui è titolare un suo collega, col quale ha numerosi interessi comuni, ad esempio di carriera e la difesa dell’abnorme potere della comune corporazione. Ed hanno gli uffici nello stesso Palazzo. I magistrati difendono ad oltranza il vincolo organico che lega giudici e pubblici ministeri perché comprendono che l’unione fa la forza.

Peraltro molti nostri giudici sono affetti dal virus della politicizzazione. Ammoniva Paolo Barile che il magistrato che scambia il suo seggio con il palco cessa di essere magistrato (Introduzione al saggio di Piero Calamandrei: “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, Ponte delle Grazie 1989). E più recentemente un magistrato ha parlato di “ideal tipi negativi di magistrato”, tra i quali quello di uomo di potere, che pur nel rispetto formale delle norme, prostituisce la nobile funzione giudiziaria per scopi estranei alla funzione di giustizia (Caferra: “Il magistrato senza qualità”, ed. Laterza 1996, parafrasando Robert Musil, che aveva scritto “L’uomo senza qualità”, opera restata incompiuta). E’ utile avvertire che quando si parla di pubblico ministero non vengono in considerazione i requisiti di imparzialità e di indipendenza propri del giudice e si comprende bene la ragione: il pubblico ministero è parte in quanto rappresenta uno degli interessi che si dibattono nel processo e perciò sarebbe un controsenso definirlo imparziale; né può essere indipendente perché la Costituzione prevede per il giudice, non anche per il pubblico ministero, la soggezione soltanto alla legge. La indipendenza del pubblico ministero non solo non è riscontrabile in alcun dato normativo, ma è stabilito che le sue funzioni sono sottoposte alla vigilanza del Ministro di giustizia (art. 69 dell’ordinamento giudiziario).

E’ deprimente, però, constatare che le cose non sono destinate a cambiare, almeno nell’immediato; perciò i giudici continueranno ad essere appellati tali, anche quando sono “senza qualità”: ma, per carità, non chiamateli “Vostro Onore”.


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