RIFORME, LEGGE ELETTORALE E CORTE COSTITUZIONALE

Il Presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno (2013) ha affermato: «è giunto il momento di sbloccare il Paese». Che il Paese sia bloccato è un dato di fatto, fin troppo noto, risalente – come Napolitano ben sa – al 1922, quando una parte della sinistra fondò il partito comunista). Ed è anche un dato di fatto che la spaccatura duri ancora (come dimostra la estromissione dal Senato del capo dell’opposizione) e durerà finché i comunisti non si convertiranno alla ideologia ed alla prassi del socialismo democratico.

E se tutto ciò è vero, l’invito di Napolitano di procedere a riforme “condivise” è, in tutta evidenza, un escamotage teso a far durare il Governo dei compagni comunisti. D’altronde in questa divaricazione delle forze politiche una eventuale riforma sarebbe all’insegna del gattopardismo.

Peraltro, poiché non sorgeranno dalla mente di Minerva, le riforme postulano due precise condizioni: in primo luogo i partiti devono prima interpellare il popolo – non genericamente – su cosa e su come riformare, posto che il popolo è titolare della potestà costituente (non si cambia la Costituzione emanata dal popolo nel 1947, con un accordo di due persone); in secondo luogo, la classe politica deve essere autorevole e capace di attuare finalmente i principi fondamentali della democrazia di stampo occidentale (presupposto però, che allo stato delle cose, manca. Infatti, manca una equa separazione dei poteri e soprattutto la loro reciproca controllabilità (Montesquieu scriveva: perché non si possa abusare del potere bisogna che «per la disposizione delle cose il potere arresti il potere», concetto, questo, che è alla base del costituzionalismo moderno), inoltre, manca la responsabilità per l’esercizio del potere (principio affermato fin dall’epoca della democrazia ateniese: Eschine, oratore e politico greco, avversario di Demostene, diceva, appunto, che chiunque eserciti un potere pubblico è tenuto a renderne conto). Poi manca – anche se non fa parte del tema delle riforme, ma della cultura politica – il principio base di ogni collettività democratica, quello della preminenza dell’interesse generale sugli interessi particolari: da noi, come è noto, ciascun partito tira l’acqua al proprio mulino, interessandosi poco, o nient’affatto, del bene comune (Tocqueville ricordava che ogni americano, ben dotato di esperienza politica, è abituato a considerare la res pubblica come l’orizzonte costitutivo del proprio interesse). Infine, da noi circola non la vera cultura (che è pluralismo delle idee, liberamente espresse e praticate), ma le “vulgate”, quasi sempre di origine comunista, che producono il conformismo, che è ostativo ad ogni, pur necessario, cambiamento. O, al più, il compromesso di bassa lega. In definitiva – diciamoci la verità – mancano gli ingredienti culturali per una evoluzione del Paese al passo delle democrazie evolute, efficienti e garantiste.

La riforma di cui tanto si parla (ma senza alcun costrutto), include molti rilevanti aspetti dell’ordinamento repubblicano, quali ad esempio l’eliminazione del bicameralismo perfetto, i poteri dell’Esecutivo, i rapporti di questo con il Parlamento, il numero dei parlamentari, il loro costo, eccetera, ma non credo di esagerare se affermo che è preminente (anche se nessuno lo avverta) la riforma dei poteri di garanzia (capo dello Stato, Corte costituzionale, Magistratura), riforma che è la madre di tutte le riforme: invero a ben poco servirebbe che le istituzioni politiche siano disciplinate in modo da funzionare ottimamente se, poi, questi poteri di garanzia possono mettersi impunemente di traverso sui percorsi della politica: un Capo dello Stato straripante, una Corte costituzionale che prevale sulla sovranità popolare, una magistratura diventata “contropotere” possono arbitrariamente intralciare la governance dello Stato, ancorché bene ordinato.

Se dal tema delle riforme istituzionali si passa a quello della politica economica, risulta ugualmente evidente la contrapposizione dei blocchi di potere, tra statalisti e liberisti (ma di questo non mi occupo qui), mi preme però rilevare che è scemata notevolmente la fiducia del popolo verso la classe governante, ben attaccata alla mangiatoia e insensibile al dramma che sta vivendo il nostro popolo, dramma che rischia di degenerare in tragedia, preludio dell’apparire di mostri. Le indicazioni sulla attuale situazione politica e sociale del Paese inducono alla depressione il popolo che, pur con tutti i suoi atavici difetti (principalmente il disinteresse per la res publica), ha una ricchezza d’ingegno, di energie e d’inventiva che veramente fa invidia ad altre genti. Facevo queste riflessioni quando è giunta la sentenza della Corte costituzionale, di cui qui appresso dirò, la quale mi ha gettato nella disperazione più nera.

Si tratta della sentenza n. 1/2014 – pronunciata il 12 dicembre 2013 e depositata in Cancelleria il 13 gennaio scorso – la quale ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale del 2005 (nota come Porcellum) nella parte all’attribuzione del premio di maggioranza ed alle liste bloccate. Non entro nel merito di questa dichiarazione (anche se il motivo di qualche rilievo non mancherebbe), posto che essa è inoppugnabile (art. 137 Cost.), mi ha indignato però l’affermazione secondo cui l’effetto della dichiarazione d’incostituzionalità si verifica esclusivamente in occasione della prossima elezione.

La Corte ha bensì riconosciuto che la dichiarazione d’incostituzionalità delle norme produce effetto anche su fatti del passato (la c.d. retroattività), ma ha ritenuto che questo effetto cessa, nel caso di specie, quando il processo di composizione delle Camere si è compiuto con la proclamazione degli eletti. Sarebbero, perciò, legittimi gli atti posti in essere dal Parlamento dopo la proclamazione degli eletti. Sennonché, dottrina e giurisprudenza ritengono che l’effetto retroattivo della dichiarazione d’illegittimità costituzionale si arresta soltanto in ordine ai “rapporti chiusi in modo irretrattabile”.

La legge approvata da una maggioranza di parlamentari comprensiva del premio annullato, non potrà che essere bocciata in sede giurisdizionale perché l’incostituzionalità preclude in un giudizio fare comunque, direttamente o indirettamente, riferimento alla norma annullata dalla Corte. Ma a parte ciò si deve rilevare, conclusivamente, che la Corte è in contraddizione con se stessa: se fosse esatto l’assunto che l’effetto retroattivo non si verifica dopo la proclamazione degli eletti, avrebbe dovuto dichiarare inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione nel 2013, dopo che si erano concluse persino le legislature (del 2006 e del 2008).

E l’assunto della sentenza è inconcepibile anche sul piano della logica: come può essere che dall’albero avvelenato continuano a nascere frutti sani? La Corte deve aver avvertito la debolezza del suo ragionamento ed ha, quindi, estratto il classico coniglio dal cilindro: nella specie – scrive la sentenza – «rileva il principio fondamentale della continuità dello Stato, principio che si concreta attraverso la continuità dei suoi organi costituzionali a cominciare dal Parlamento, che non possono in nessun modo cessare di esistere o perdere la capacità di operare».

Ma tale principio, pur in sé e per sé esatto (la nostra storia ha fatto però registrare una eccezione allorché nel 1943 venne abolita la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, che aveva sostituito la Camera dei deputati, onde la funzione legislativa venne delegata al Governo), è citato a sproposito dalla Corte (absit iniuria verbis): infatti, non è in discussione la continuità del Parlamento e tanto meno la sua esistenza, ma la sua rappresentatività, nonché la possibilità di funzionare legittimamente. Quando queste condizioni vengono meno (come nel caso in esame) si verifica una frattura tra l’istituzione parlamentare e gli elettori, onde la Costituzione prevede lo scioglimento anticipato delle Camere ad opera del Presidente della Repubblica, che non può non prendere atto della frattura che si è verificata tra eletti ed elettori, frattura che impone lo scioglimento delle Camere, come prevede l’art. 88 della Costituzione; scioglimento che non è una prerogativa presidenziale, cioè rimesso alla sua insindacabile volontà, ma è un atto “dovuto” (all’Assemblea costituente, infatti fu respinta la proposta dell’on. Benvenuti, di fare dello scioglimento una prerogativa presidenziale: si osservò che un potere così grande potesse soverchiare la volontà popolare).

Alla stregua delle suesposte osservazioni appare evidente che l’assunto della Corte – è bene dirlo, a scanso di equivoci – non fa parte del “decisum” (solo questo, ovviamente, obbliga), ma è solo una mera opinione, peraltro infondata, e può definirsi un assist – una ciambella di salvataggio – al Presidente della Repubblica nel tentativo di evitargli di ricorrere all’art. 88 della Costituzione. Ma il Presidente ha giurato l’osservanza della Costituzione (art. 91) non delle opinioni della Corte costituzionale, per quanto autorevoli possano apparire (ma qualche volta non lo sono).

Il presidente Napolitano, forte di questo parere (di cui colposamente non percepisce l’erroneità, nonostante dispone di consiglieri giuridici), ha ripetutamente dichiarato che non intende procedere, come sarebbe suo tassativo dovere, allo scioglimento del Parlamento; lo scioglimento, secondo lui, ce lo dobbiamo scordare (riemerge il comunista doc) e, ad un giornalista che gli chiedeva cosa pensasse al riguardo, ha risposto secco: lo scioglimento è una sciocchezza (sic!).

È deprimente che la Corte costituzionale sia venuta meno al dovere d’imparzialità, è deprimente che il Presidente della Repubblica abbia dimostrato di conoscere poco la Costituzione, ostinandosi in un illegittimo diniego, esponendo in tal modo il Paese a conseguenze imprevedibili, è deprimente che i giuristi non abbiano reagito all’arbitro della Corte costituzionale. Come se nulla fosse accaduto con la sentenza costituzionale, Napolitano ha rimesso in scena la pantomima delle consultazioni a seguito delle dimissioni di Letta e del suo Governo (che sono state subito accettate impedendo al Parlamento di pronunciarsi). Come al solito, Napolitano, ha avuto la pezza a colore: bisogna far presto, come disse nel 2011, affidando l’incarico a Monti.

Intanto il Paese, estraneo ai giochi di palazzo (a dire la verità inverecondi), sprofonda. Si è detto che c’era bisogno di una nuova legge elettorale per celebrare quello che è il rito più alto della democrazia, cioè la votazione. Niente di più falso è affermare che una nuova legge elettorale sia necessaria per avere Governi stabili. Non è un problema impellente, perché come ha detto la sentenza costituzionale in questione (punto 6) – che in questo condivido – si può votare con la legge in vigore, ovviamente con quella che resta dopo l’annullamento, perché è complessivamente idonea a garantire il rinnovo del Parlamento. Chi dice che l’Italia è un Paese normale o mente o è un visionario.

Marsilio
Zona di frontiera, 18 Febbraio 2014


3 commenti a “RIFORME, LEGGE ELETTORALE E CORTE COSTITUZIONALE”

  1. franco brezzi says:

    Eh già, egregio sig Marsilio: ma è una magra consolazione dirle fra noi tutte queste belle cose. Gli occhi che dovrebbero leggerle se ne guardano bene dal farlo e, nell’improbabile caso che lo abbiano fatto, se ne guardano bene dal comunicare al relativo cervello, il concentrato dei concetti. Gli occhi che potrebbero leggerlo e ricavarne qualcosa, son tutti a disposizione della Gazzetta dello Sport e dei lati B televisivi. A volte servono anche per gli SMS, quegli occhi, ma sono delegati solamente a scrivere solenni banalità. I padroni di quegli occhi, a volte vanno a votare: con quale preparazione? Certo, se non ci andessero sarebbe peggio, ma il risultato è evidentemente scaturito solo dalla profonda conoscenza della parabola del calcio di Totti e di quella del fondo schiena della moglie.
    Dovremmo avere anche noi qualche grosso sistema per propagandare le nostre idee. Ma i sistemi costano e noi, non abbiamo mecenati che graziosamente ci offrano fabbriche tipo Olivetti. E neppure magistrati da pronto soccorso. Grazie, però.
    Franco Brezzi


  2. Michele Gaslini says:

    Perfettamente d’accordo con i rilievi tratti dall’articolo, salvo che per un particolare.
    La nostra vigente costituzione, infatti, contrariamente a quanto riportato, non è affatto, come s’è scritto, un documento « … emanato dal popolo … » (contrariamente a quella francese ad essa coeva, fra le altre cose, ben ci si guardò dal sottoporla ad un “referendum confermativo”), ma altro non rappresenta che il frutto dell’accordo di quella consorteria partitica che, a partire dall’ufficiale riconoscimento del Cln quale “istituzione statuale di fatto”, ha instaurato in Italia quella “ferrea legge dell’oligarchia”, ben esaminata dagli studi del Michels .


  3. Admin says:

    Mi permetto di segnalare degli approfondimenti di Marsilio in seguito ai commenti su questo articolo.

    http://www.zonadifrontiera.org/2014/04/03/commento-ai-commenti/


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