PENSIERO UNICO: A LONG GOOD BYE

Queste poche righe sono ispirate da tutto meno che da ironia, e dunque, io spero, scevre di ogni spirito di rivincita. Infatti: qui vorrei solo sottolineare che siamo in tempi in cui, bene o male, i totalitarismi ormai si puniscono da sé.

I totalitarismi si distinguono anzitutto per la presenza, nel loro armamentario politico-propagandistico, o come anche suol dirsi «ideario», di quella triste infermità o compromissione del pensiero che risponde al nome di «pensiero unico». Di questo temibile morbo della mente (che, stranamente, ha imperversato, e più volte è riapparso dopo apparenti segni di remissione, specialmente nel ventesimo secolo -, il secolo in cui forse più e meglio si è teorizzato il valore della libertà -, ma questa è una nota legge dialettica) sono stati esempi massimi il comunismo e il suo ampio alone di «pensiero di sinistra»; il fascismo, anche qui con un rispettivo anche se meno vasto «alone»; il nazismo. Negli ultimi decennî, anzi dal dopoguerra in poi, il pensiero unico è stato quasi esclusivamente appannaggio dalle sinistre. Si deve anche constatare che, dalla morte di Stalin in poi, la sinistra e la sua politica non hanno registrato, in genere, che sconfitte, politiche sul campo, culturali nel mondo delle idee: donde un permanente tono di rivalsa, di smentita delle smentite, insomma di revanchisme dottrinario, che poi, nell’autunno dell’89, generò atteggiamenti curiosi, spesso al limite della comicità: simili a quelli, per esempio, provocati quaranta o cinquanta anni prima dalla caduta del fascismo. Casi di conversione repentina, di simulato stupore, e simili. Ma, prima e poi, il continuo arretrare della trincea dottrinaria del marxismo ha generato vari modi, o quasi «metodologie», di occultamento della sconfitta mediante attenuazione progressiva di alcune premesse teoriche troppo scopertamente errate, e l’emergere di nuovi atteggiamenti più vicini ad un generico «tono» considerato elegante o addirittura obbligatorio tra persone culturalmente decenti: gauche caviar, «sinistrese con la erre moscia», political correctness, semipopulismi varî, coltivazione indiscriminata del «diverso», promiscuità, ieratismi ed esibizionismi aiutando, etc. etc.

Parallelamente a queste strane evoluzioni, o meglio involuzioni, della mentalità collettiva, una più o meno plausibile libertà dei contenuti del pensiero (se non senz’altro del pensiero, come fisiologico prodursi del medesimo) ha necessariamente migrato verso destra, dove l’esigenza di nascondere il fallimento evidentemente non era sentita (il fallimento della destra politica c’era stato e come, ma molto tempo prima). Lasciando da parte i ritorni di fiamma fascisti, possibili sempre e ovunque negli ambienti più arretrati, questo stato di cose ha legittimamente consentito il riemergere delle tradizioni liberaleggianti (molto radicate nella classe medio-alta, anche se talora in maniera singolarmente semiclandestina: la sinistra ha sempre demonizzato, è ovvio, lo spirito liberale, cercando di presentarlo come una versione subdola del totalitarsmo di destra).

Inutile qui precisare che proprio per il suddetto motivo dell’avversione al liberalismo i due gruppi di sintomi (pensiero unico di sinistra, pensiero unico di destra) sono inevitabilmente apparentati: tra le «caratteristiche» proprie del pensiero unico vige, principalissimo, il sintomo della avversione al liberalismo. Esso è talmente preponderante, che nei fatti è varie volte accaduto che i due totalitarismi si siano alleati (vedi Stalin e Hitler, o Togliatti e fascismo: casi da encicolpedia!). Oggi, a posteriori, si rivela una pura e semplice tautologia il rilievo, autorizzato dalla storia, che i totalitarismi si assomigliano tutti e che, quando si combattono, essi si combattono per il potere, non certo per le idee.

Una tautologia: giacché esiste, corretto anche se scomodo da utilizzare, un modo «in negativo» di dire liberalismo: ed è appunto: “pensiero non-unico”.

Proprio di recente, può forse dirsi addirittura in questi mesi, si è avverato, come effetto ritardato del berlusconismo (che è stato una vera e propria benefica “sassata” tirata nello stagno della stagnante politica italiana), una accetuazione molto consistente del fenomeno di cui stiamo parlando. E’ praticamente adesso che l’inesorabile declino del pensiero unico – certo assente da sempre nelle menti delle persone culturalmente mature, ma in vario modo ricorrente nelle collettività – ha fatto, per così dire, la sua prima consistente apparizione sociale, come declino di un perfido costume e di una indegna moda.

Naturalmente importanza primaria, in questo processo di vera e propria «liberazione», sta ora assumendo ciò che ci si propone di attuare sul piano delle modifiche dell’architettura istituzionale dello Stato e della amministrazione di questo: prospettive (che spero non resteranno ancora una volta tali) di frenare il parlamentarismo mediante la timida introduzione di alcune componenti del presidenzalismo; salutare divisione del compiti delle Camere; altrettanto opportuna riduzione del numero di deputati e senatori (riduzione che, con contraddizione solo apparente, moltiplica e non diminuisce le sententiae: si era mai sospettato, prima, che molto probabilmente proprio la riduzione dei capita le potrebbe ulteriormente svincolare dal morbo del pensiero unico!?) etc. etc.

E poi, altri benefici fatti nuovi: disavventure che hanno iniziato a suddividere, o francamente frammentato, il pensiero unico alla radice: esempio, le problematiche e i conflitti introdotti dalla famosa TAV, che hanno finalmente sancito la rottura della paralizzante unicità delle parole d’ordine di sinistra e dei conformismi conseguenti. Essere «contro» non è più appannaggio della sinistra!

Altri fatti sono in vista. Si vanno producendo, o si sono già prodotti, i polemismi tra «nomenclature» e «rottamatori»; talora, episodî difficilmente interpretabili, ma comunque significativi, come la sconfitta della Borsellino a Palermo, e situazioni affini di sgretolamento a Napoli, a Piacenza, ed altrove.

Ancora: le incertezze e contraddizioni, ormai evidenti, e chiaramente espresse, tra le varie sigle sindacali (si ricomincia a pensare che i sindacati dovrebbero ritornare ai loro compiti fisiologici: difesa a-politica del lavoro); il coagularsi (solitamente velleitario, certo, ma non per questo non sintomatico) di nuove alleanze tra i diversi partiti, donde il profilarsi di «confini» finalmente non più manichei, ovvero non più orientati secondo un frenetico bipolarismo. Nuove ispirazioni politiche, di consistenza varia e magari anche solo apparente, ma nate come salvagente dottrinarî in una situazione di generale declino, vanno rivelando disagi sempre più marcati e tentativi di riscossa ancora una volta sintomatici anche se immaginarî.

Dichiarazioni orali di Bersani, interventi su giornali quali La Repubblica o La Stampa… La parabola di Bersani è da manuale: egli ormai non può che continuare a perdere per motivi addirittura… «strutturali », la sua collocazione politica è ormai ubicata su di un piano inclinato e scivoloso, che impedisce «automaticamente» ogni tentativo di risalita. In questi «slalom» vedremo forse impegnati personaggi stanchi perché già vanamente utilizzati, o di retroguardia culturale perché portatori di vecchie ricette rimesse a nuovo con ammodernati gergalismi o neolalismi solo apprentemente nuovi, o finalmente veri e propri ignoranti, la cui novità consiste solo nell’uso eccessivo di strafalcioni grammaticali e sintattici?

Tutto ciò è da intendere, correttamente, non come «vittoria contro le sinistre» (sarebbe un modo di ricadere nella sintassi «a due posizioni», nel gioco «sí oppure no» del pensiero unico), ma come vittoria della mente e basta. Sintomo di una maturazione politica che, lenta quanto si voglia, è ormai indispensabile e, speriamo, inarrestabile, per evitare che la Nazione cada in un recidivante infantilismo politico. Una evoluzione, insomma, della quale ci si può solo compiacere non per ragioni di parte, ma in nome della stessa qualità del pensiero: politico e culturale.

Per chi, come il sottoscritto, non ha parte attiva nel dibattito in corso, la dissonante situazione di declino del pensiero unico ha un significato complessivo estremamente confortante: si tratta né più né meno che di sintomi di possibile liberazione, di speranza -, speranza dell’instaurarsi d’un clima di discussione politica e in genere culturale di nuovo interessante, e degno del nostro passato di insigne nazione europea. Era, ed è, troppo avviliente constatare che la patria di Guicciardini e di Machiavelli, di Vico e di Genovesi, di Pareto e di Mosca, di Michels e di Salvemini e del «primo» Gentile, dei due Spaventa, di Croce e di Gobetti, potrebbe affondare nella palude del pensiero politico coatto, con una triste involuzione della quale il fascismo sarebbe stato solo il penultimo capitolo.

Da strettamente politico, il problema del pensiero unico da ora in poi diventerà, noi speriamo, solo un increscioso problema di costume e di mentalità della parte… inferiore della classe media e piccoloborghese. Ed è qui opportuno ricordare che per i liberali la «classe» non è snobisticamente un criterio di appartenenza sociale per nascita o per tradizione, ma un semplice criterio di qualità personale.

Questa riconseguita libertà di giudizio consentirà forse, noi speriamo, di combattere con maggiore agilità e prospettive di successo alcune vecchie nostre piaghe caratteriali quali la faziosità, la discordia coltivata quasi come dote sportiva, il dissenso preconcetto considerato come una sorta di elegante caratteristica sociale, il conformismo giudicato ora una sorta di utile difesa e giustificazione intima della prudenza, ora come stolta bandiera di appartenenza a non si sa quale classe eletta, una sorta di permesso di circolazione accordato a strambi soggetti «snob» non si sa da chi legittimati e come insediati. Di tutte queste storture sociali, sociologiche, culturali, psicologiche, dovremo prima o poi cercare di fare a meno. Anche perché, come tutti i vizi collettivi, esse oscurano e deformano le nostre molte caratteristiche positive: la generosità, la fantasia, l’umanità nativa, la laboriosità, il senso estetico della vita (che esiste, sí, esiste, anche se non sembra!), e insomma le mille grandi e piccole cose che possono a buon diritto renderci fieri di essere Italiani, e consapevoli di essere utili al concerto delle nazioni europee: di nuovo come una volta, di nuovo come più volte, di nuovo come… sempre.

Leonardo Cammarano
Zona di frontiera, 6 Marzo 2012


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